L’Europa sorge a Capo Nord
Nel 1936 lo scrittore ceco Čapek parte con la moglie per un viaggio nei Paesi scandinavi, scopre una natura incontaminata e intuisce venti di guerra
di Maria Luisa Colledani
3' di lettura
Buonanotte, perché è già giorno, e in cielo brilla il sole di mezzanotte che il timoniere mostra ai pochi turisti appena arrivati a Capo Nord a bordo dell’Håkon Adalstein. Sul battello ci sono anche lo scrittore Karel Čapek e la moglie, e questo sarà il loro ultimo viaggio insieme. L’autore ceco, nato nel 1890 come suddito dell’impero austroungarico, lavora per i giornali e per il teatro (nel suo dramma R.U.R., Rossumovi univerzální roboti, appare per la prima volta la parola robot, dal ceco robota, “lavoro duro, lavoro forzato”), non disdegna la forma del romanzo e sogna il profondo Nord ammaliato dalle imprese polari di Roald Amundsen e Fridtjof Nansen. Parte nel 1936, quando l’Europa è già una bomba a orologeria, fra riarmo generalizzato e rigurgiti razzisti, e si racconta nel suo Viaggio al Nord.
L’idillio del Nord Europa
Si avviano in treno e la Danimarca è un primo svelamento: «piccolo, dolce, puro paese, dove in luogo delle staccionate si allineano piccoli abeti, come pizzi di carta che qualche mammina abbia ritagliato per la credenza». Lo sguardo di Čapek è pieno di meraviglia e la scrittura quasi idilliaca, come lo sono i disegni, schizzi veloci - riprodotti nel libro - che fa nel suo andare. Fattorie, radure, donne e uomini in bicicletta, neppure un granello di sporcizia o di miseria. Anche in Svezia, dove non viene buio ma il cielo impallidisce, l’ordine è consolazione del cuore e tutti si salutano: «non dev’essere una piccola cosa se il viaggiatore qui si sente più umano e padrone di sé che altrove nel mondo».
Venti di guerra sull’Europa
Karel e la moglie arrivano a Stoccolma, per poi passare in Norvegia, fra laghi e montagne: «strano paese, lo si direbbe un deserto verde», dove la letteratura si esprime in tre lingue e fa della pluralità una ricchezza inestimabile agli occhi dello scrittore. Queste notazioni, accompagnate da una vena umoristica alla Hrabal, svelano la sua coscienza sullo stato di salute dell’Europa: «Io sono un patriota della piccola Europa e anche se non dovessi vedere più nulla ripeterò fino alla morte: ho veduto la grandezza del mondo. È possibile che il nostro pianeta prima o poi si raffreddi, o che vi provvederemo noi uomini e ne faremo una landa dove non ci saranno neppure i gabbiani a gridare sulle acque, ma per quanto ci saremo sforzati non potremo violare la grandezza del mondo. Non è una gran consolazione, lo so; viviamo in tempi calamitosi e il nostro cuore è attanagliato dalla pena, ma il mondo è grande».
Pini, abeti bianchi e rossi, betulle e larici, salici argentati e neri ginepri sono infiniti, «così tanti da avere un effetto preistorico e immortale, elementare e primordiale, come una formazione geologica». Karel è ammaliato dalla natura e dalla capacità di sopravvivere quassù: «l’uomo è tenace come il salice artico strisciante, che forma un tappeto d’argento dove ormai neppure l’erba riesce più a crescere». Dopo Bergen inizia il tragitto in battello, a bordo dell’Håkon Adalstein, prima, direzione Trondheim, poi isole Lofoten, infine verso il grande Nord, paesaggio severo con una grandezza e uno stile quasi tragici, e giorni e giorni di solo cibo in scatola.
La grandezza di Capo Nord
Tutto si mescola e si sovrappone, gli occhi europei perdono i colori, e il cuore si smarrisce: «cielo e mare, giorni mutevoli e infiniti, senza crepuscolo, notte e alba; qui il tempo non esiste, questo è il punto. Qui il tempo non scorre, ma si riversa senza sponde, come il mare riflette il moto del sole e il viaggio delle nubi, ma non procede insieme a loro, non scivola via; solo l’orologio, inutilmente, con il suo caparbio e ridicolo ticchettio, continua a misurare un tempo che non c’è». E forse, in questo smarrimento dei sensi, lo scrittore già sente il crepuscolo dell’Europa e il dissolversi del suo giovane Paese, la Cecoslovacchia, a causa degli accordi di Monaco del 1938. Allora, è sfiduciato e braccato dalla Gestapo che, quando lo va a prelevare a casa, non lo trova: era stato ucciso dalla polmonite nel Natale del 1938. Meglio la polmonite della morte in campo di concentramento.
Un mondo primitivo
Per fortuna, pochi anni prima, Karel Čapek aveva avuto quei chilometri infiniti nella purezza della natura, quella vita lenta tra fattorie e cattedrali di ghiaccio, dalla Danimarca fino a Capo Nord. Oltre quel mare bianco ci sono solo l’isola degli Orsi e le Svalbard: «il continente finisce in modo semplice e brusco, con questo grande punto esclamativo, con qualcosa di primitivo e originario come una parete di roccia. Non è la fine dell’Europa, è il suo inizio». E, lassù, tra soste e approdi, tra fiordi e baie color di perla, «che importa conoscere l’ora e i minuti se si vive nell’eternità?».
Viaggio al Nord
Karel Čapek
Iperborea, pagg. 212, € 18
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