Fmi: crescita mondiale mai così bassa dalla crisi del 2008. Giù le stime dell’Italia
Il Fondo monetario taglia le stime sul Pil mondiale: colpa delle tensioni commerciali. Tagliate anche stime italiane: 0 nel 2019 e +0,5% nel 2020. E senza le politiche monetarie espansive delle maggiori banche centrali, la crescita sarebbe stata dello 0,5% più bassa
di Gianluca Di Donfrancesco
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L’economia mondiale paga il prezzo della guerra dei dazi e la sua crescita si fermerà al 3% nel 2019, lo 0,2% in meno rispetto a quanto previsto a luglio e ai minimi dalla grande crisi del 2008-09. La ripresa attesa per il 2020 resta «precaria», ferma al 3,4%. E senza le politiche monetarie espansive delle banche centrali, «la crescita mondiale sarebbe dello 0,5% più bassa sia nel 2019 che nel 2020». È il verdetto World Economic Outlook 2019 (Weo) dell’Fmi, presentato a Washington martedì 15 ottobre, in apertura dei meeting annuali del Fondo monetario e della Banca mondiale. Il titolo del rapporto dice tutto: «Manifattura globale in calo, barriere commerciali in salita».
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L’Fmi procede così al quarto taglio delle previsioni di crescita mondiale da ottobre del 2018, quando l’istituto ancora stimava un aumento del Pil del 3,7%, ma cominciava già a segnalare nubi all’orizzonte. Da allora, molto di quanto il Fondo temeva si è avverato e nuove tariffe Usa sono in arrivo il 18 ottobre contro l’Europa per il caso Airbus, mentre Washington e Pechino provano a dare sostanza alla fragile e limitata tregua raggiunta la scorsa settimana, che ha almeno permesso di disinnescare un’altra raffica di dazi in programma proprio per oggi.
E sarebbe potuto andare peggio. Le politiche monetarie espansive attuate quasi simultaneamente nei Paesi avanzati e in quelli emergenti», sottolinea il Fondo, hanno «aiutato a contenere l’impatto delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, che secondo le stime ridurranno il Pil mondiale dello 0,8% entro il 2020».
L’Fmi quindi promuove le mosse delle Banche centrali, Fed e Bce in testa (finite di recente al centro di accese polemiche), ma mette in guardia sugli effetti negativi che possono avere sulla stabilità dei mercati finanziari. E invita i Governi a fare la loro parte con politiche di bilancio espansive, quando possibile, e con risposte coordinate a livello internazionale in caso di deterioramento del quadro.
Per la Germania, si legge nel report, «aumentare gli investimenti pubblici o ridurre il cuneo fiscale alimenterebbe i consumi, rafforzerebbe il potenziale di crescita e ridurrebbe gli eccessi di surplus delle partite correnti», stimato al 7% quest’anno e al 6,6% il prossimo, dall’8,1% del 2017. Il capo-economista dell’Fmi, Gita Gopinath, invita Berlino «ad approfittare dei tassi negativi per investire in capitale sociale e infrastrutture».
Al contrario, i Paesi con alto debito, «come Francia, Italia e Spagna», devono gradualmente ricostituire i «fiscal buffers», gli ammortizzatori fiscali . «L’impegno credibile a ridurre il debito nel medio termine è particolarmente importante in Italia, dove debito e esigenze di rifinanziamento sono ingenti».
Gli Stati Uniti sono visti in frenata dal 2,9% del 2018 al 2,1% del 2020 e, tuttavia, l’anno prossimo potrebbero fare meglio di quanto si prevedeva a luglio (1,9%). La Cina frena al 6,1% quest’anno e al 5,8% il prossimo. La Germania rallenta allo 0,5% nel 2019, con una ripresa all’1,2% nel 2020, che resta dello 0,5% più bassa rispetto alle stime precedenti. L’Eurozona nel suo complesso frenerà all’1,2% quest’anno per tornare all’1,4% il prossimo.
Per l’Italia, il 2019 sarà un anno a crescita zero (-0,1% rispetto alle stime di luglio). Nel 2020, l’Fmi prevede un rimbalzo dello 0,5%. Pesano il calo dei consumi, un minor stimolo alla crescita da parte delle politiche di bilancio e la congiuntura internazionale. Il deficit pubblico è visto al 2% per il 2019 e al 2,5% nel 2020 (le stime dell’Fmi sono elaborate sulla base del Def di aprile e assumono che le clausole Iva siano disinnescate, la recente Nadef fissa il deficit al 2,2% per quest’anno e il prossimo e il Pil allo 0,1 e allo 0,6%).
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È un «rallentamento sincronizzato» quello registrato dall’Fmi: e la prima causa è appunto «l’innalzamento delle barriere commerciali». L’allarme sulle conseguenze della guerra dei dazi è stato costante negli ultimi due anni, un coro che ha coinvolto, oltre al Fondo, le principali istituzioni internazionali, dalla Wto, all’Ocse, alla Ue e alla Bce. Ma non ha potuto impedire all’America di Trump di portare avanti la sua crociata, con effetti soprattutto sul settore più esposto, il manifatturiero, in crisi ovunque: le imprese del settore «sono diventate più prudenti e hanno rimandato gli acquisti di macchinari» e beni intermedi, che spesso vengono esportati, sottolinea l’outlook.
La crescita del volume degli scambi globali si è così fermata all’1% nella prima metà del 2019 (e chiuderà l’anno all’1,25%), complice anche la crisi dell’industria dell’auto, alle prese in Europa e in Cina con la radicale ridefinizione degli standard di emissione e sulla quale pende la minaccia dei dazi Usa.
Dopo i dazi, nell’analisi dell’Fmi, le principali cause della frenata mondiale sono le tensioni geopolitiche, la bassa crescita della produttività e l’invecchiamento della popolazione nei Paesi avanzati. In questo quadro, l’occupazione è stata finora sostenuta dal settore dei servizi, sul quale però, avvisa il Fondo, cominciano a riversarsi gli effetti della crisi dell’industria.
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Sulla precaria ripresa del 2020, segnala infine l’Fmi, pendono molte variabili: la Brexit, le crisi geopolitiche, il climate change. Ma con una crescita al 3% «non c’è spazio per gli errori e servono riforme per sostenere la crescita», afferma il capo-economista del Fondo, Gopinath. Che aggiunge: «Gli Stati devono collaborare, perché il multilateralismo resta l’unica soluzione per affrontare le questioni più importanti, dal climate change alla cybersecurity, dall’elusione ed evasione fiscale alle opportunità e sfide delle nuove tecnologie finanziarie».
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