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L’Homo Narrans nell’età dell’intelligenza artificiale

on la disponibilità di enormi quantità di dati elaborati dalle cosiddette macchine pensanti, i numeri parlano da soli? L'intelligenza artificiale porterà all'estinzione dell'Homo Narrans? Rispondiamo di no

di Piero Formica

(Who is Danny - stock.adobe.com)

5' di lettura

Con la disponibilità di enormi quantità di dati elaborati dalle cosiddette macchine pensanti, i numeri parlano da soli? L'intelligenza artificiale porterà all'estinzione dell'Homo Narrans? Rispondiamo di no. Navigando sulla mongolfiera delle narrazioni, i dati si elevano a una realtà superiore. La difficoltà del tempo in cui viviamo mette alla prova la creatività umana per lasciarsi afferrare dalla meraviglia che il sociologo tedesco Max Weber chiamava capacità di stupirsi. Esserne dotati porta gli esseri umani a porsi delle domande per rinvenire soluzioni radicali alle minacce che abbiamo di fronte. Vanno cercati altri sentieri, quelli del giudizio discendente da narrazioni e conversazioni consapevoli, in aggiunta ai percorsi contrassegnati dai modelli econometrici e probabilistici. In realtà, anche se gli economisti e gli scienziati più testardi potrebbero rabbrividire ad ammetterlo, non è una novità che la letteratura è da sempre musa ispiratrice dell'economia e veicolo di riforme. Tra queste, la riforma del comportamento umano, quella del cuore anzitutto, per contrastare «la mente e il cuore terribilmente corrotti», come si augurava Madame de La Fayette nel Seicento che coltivava l'ideale della socievolezza.
Nella conversazione libera, non lineare, il narrare e l'ascoltare storie che a prima vista appaiano senza senso hanno forgiato ambienti creativi. Ne sono vivida testimonianza i simposi di Atene, le botteghe artistiche della Firenze medicea, i salotti delle grandi dame francesi del Seicento e Settecento, lo Junto club di Benjamin Franklin a Filadelfia, i club inglesi focolai della prima rivoluzione industriale, e gli Adda - luoghi per discussioni lunghe, informali, non rigorose - che hanno plasmato il Rinascimento del Bengala. Nel Simposio di Platone, per esempio, Socrate e i suoi amici rimangono alzati fino a notte fonda a discutere di amore e desiderio. L'aria è festosa: alcuni sono rimasti svegli per giorni, facendo baldoria, assistendo a tragedie, discutendo incessantemente i contorni di una buona vita. E la conversazione stessa è democratica. Piuttosto che avere Socrate che fa la predica agli amici sull'amore e sul desiderio, tutti si esprimono. Platone sottolinea un aspetto sottile e importante nel modo in cui presenta il suo simposio. È meglio fornire una serie di percorsi, narrazioni e storie diverse, piuttosto che insistere su un punto di vista. Nei suoi percorsi ramificati e nelle sue possibilità, il Simposio incoraggia i suoi lettori a pensare con forza e apertura mentale: a trovare il proprio sentiero tra i cespugli del desiderio. Ci sono esperimenti che sostengono l'intuizione di Platone. Il professore del MIT Alex Pentland ha dimostrato che le conversazioni tra colleghi non sono una perdita di tempo, anche se potrebbero sembrare così ai manager ansiosi: «A un team è stata concessa una pausa caffè in comune, mentre l'altro, in modo efficiente, ha scaglionato il proprio lavoro in modo da evitare interruzioni. La soddisfazione lavorativa del team sociale è aumentata ed è stata più redditizia. Cosa succede in questo tempo sprecato? Le persone condividevano informazioni, risolvevano problemi, si motivavano e si aiutavano a vicenda».
Il metodo scientifico baconiano richiede di raggiungere la sacra riva della realtà stando sulla barca stabile dei dati. Ma, andando alla ricerca di dati, la barca è costantemente costretta a rallentare e a cambiare direzione. Amare i dati è amare poligamicamente: essere affezionati a molte cose e idee soggette a venti contraddittori e mutevoli. Il viaggio continua. Il suo svolgersi è una storia di disavventure e di eventi, di incontri casuali e di incidenti felici. Coinvolge i protagonisti – gli scienziati e gli economisti che cercano con tanto vigore la verità – e coloro che incontrano lungo il cammino, gli osservatori della loro ricerca. Il comportamento è influenzato da ciò che si vede, da ciò che si impara conversando con questi appassionati cercatori della verità. La riva della realtà ha, quindi, una forma narrativa: è la storia che raccontiamo a noi stessi della ricerca della verità.
Ammettendo che le storie sono fondamentali per il progresso scientifico ed economico, avremo una visione più chiara degli eventi dirompenti che si sono impadroniti della nostra società? Uno scienziato potrebbe insistere sul fatto che il modo migliore per rispondere è quello di accumulare più dati possibile. Ma senza una narrazione che dia un senso ai dati, questa ricerca ossessiva e febbrile non si concluderà con una massa di numeri e cifre schiaccianti e non digeribili? Nel suo racconto «On Exactitude in Science», lo scrittore argentino Jorge Luis Borges immagina una società che si è abbandonata, in misura pericolosa, a un tale amore per la raccolta dei dati in sé: «In quell'Impero, l'Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell'impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell'Impero che aveva l'Immensità dell'Impero e coincideva perfettamente con esso».
Ricercare con i dati la perfezione è ciò di cui diffidava il Premio Nobel per la fisica Richard Feynman. Ne «L'incertezza della scienza», una delle sue conferenze tenute nel 1963 (John Danz Lecture Series), il padre delle nanotecnologie rimarcò che «non è sempre una buona idea essere troppo precisi». Altrimenti si arriva a una mappa grande come la cosa che si vuole mappare: perfettamente precisa e perfettamente inutile. Solo una narrazione, una storia, può aiutare a trovare il necessario equilibrio tra precisione e imprecisione. Senza tale equilibrio, la scienza stessa fallisce. Andare alla ricerca di dati, disporne per poi contarli e descriverli, è un esercizio sterile se non è sostenuto da una teoria che è una visione indispensabile per interpretarli. Essa trae alimento da idee che sono parto della pura fantasia come pure dalla capacità umana di intuire e anticipare la realtà. È la narrazione delle operazioni del pensiero, dalla raccolta di dati alla loro interpretazione, che dà completezza al sapere. Il suo fine non è, però, presentare la visione, ma l'impatto che avrà sulla società. La storia deve essere diffusa per essere conosciuta e confrontata con altre. Dalle narrazioni che s'incrociano maturano nuove e più avanzate visioni. Per sconfiggere i virus, per spezzare la catena di trasmissione delle infezioni diffusive e contagiose, c'è da trarre lezioni da vicende come quella di Ignaz Semmelweis che nel 1847 scoprì quanto la febbre da parto dipendesse dal mancato lavaggio delle mani nei reparti di maternità. Allora, quell'idea fu ritenuta sovversiva. Il contrasto che essa incontrò dipese anche dall'assenza di una narrazione da comunicare efficacemente. Rifacendosi alle traversie attraversate da quel medico ungherese così come raccontate da Sherwin Nuland nel «The Doctor's Plague», Greg Satel così commenta: «Semmelweis non vedeva l'utilità di comunicare il suo lavoro in modo efficace, di formattare le sue pubblicazioni in modo chiaro o addirittura di raccogliere dati in modo da ottenere una maggiore accettazione delle sue idee». Le storie delle esperienze vissute dalle persone permettono di vedere la Città dei Dati diversamente dalla Città di Smeraldo dove regna il Grande e Terribile Mago di Oz, e nella quale bisogna entrare con occhiali solo di colore verde per proteggersi dalla sua travolgente luminosità. Se fossimo costretti ad inforcare quegli occhiali per difenderci dalla luminosità di una massa di dati, la realtà si ridurrebbe a una scialba conformità e le sue variegate possibilità verrebbero prosciugate.

piero.formica@gmail.com

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