ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùLe prime giudici

L’impervio percorso delle magistrate italiane

Sessant’anni fa una legge finalmente apriva le porte del corpo giudiziario alle donne: in otto vinsero il concorso, sancendo un salto di mentalità, costume ed etica nel Paese

di Elisabetta Rasy

 Da sinistra, Letizia De Martino, Graziana Calcagno, Maria Gabriella Luccioli. Le loro colleghe vincitrici di quel primo concorso, su 186 idonei, sono Emilia Capelli, Raffaella d’Antonio, Giulia De Marco, Anny Izzo, Ada Lepore

5' di lettura

I giornali hanno dato grande rilievo alla nomina di Margherita Cassano, lo scorso 1° marzo, a primo presidente della Corte di Cassazione. Un rilievo del tutto comprensibile: è la prima volta che una donna assume il ruolo di giudice più alto in grado del Paese. Facciamo un salto all’indietro: nell’aprile del 1965 il quotidiano «La Stampa» di Torino così intitola un ampio articolo: “Una donna-giudice in aula a Torino per la prima volta”, riferendosi alla giovane Graziana Calcagno; un anno dopo, a proposito di un’altra giovane donna, Letizia De Martino, il «Corriere di Napoli» annuncia con analoghi caratteri cubitali: “Il primo Giudice in gonnella ha tenuto udienza in Pretura”.

Sì, in quel momento alcuni fantasmi “in gonnella” cominciano ad agitare le aule dei tribunali: si tratta delle prime otto donne che hanno superato il concorso di magistratura dopo che la legge n. 66 del 9 febbraio 1963 aveva reso possibile l’accesso femminile. Una legge che avrebbe cambiato - in maniera profonda - non solo la struttura del corpo giudiziario italiano, ma che proponeva anche un salto di mentalità, costume ed etica nell’Italia che si stava riprendendo socialmente ed economicamente dal retaggio fascista e dalle difficoltà del Dopoguerra. Anche se (vedi l’elezione di Cassano) molti altri lustri dovevano passare prima di una presenza femminile in luoghi apicali dell’istituzione, si trattò di una rivoluzione (quasi) pacifica che aveva alle spalle - e anche davanti a sé - una storia tortuosa e spinosa, come racconta, a sessant’anni esatti dalla legge, il libro di Eliana Di Caro Magistrate finalmente, che ne ricostruisce i complicati aspetti istituzionali e i più che avventurosi aspetti umani.

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Alla storia della lunga marcia femminile nel cuore del diritto italiano, Di Caro, già autrice di un volume dedicato alle donne della Costituente , affianca infatti le vicende umane e professionali delle prime otto magistrate, in un lavoro di ricerca ricco di una passione civile che si trasmette a chi legge, perché non si è limitata a raccogliere i documenti della trasformazione, ma è andata casa per casa a cercarne le tracce vive tra chi l’aveva vissuta o tra i discendenti e i colleghi. Il risultato è una sorta di romanzo corale, che ci parla di una vicenda del nostro Paese che ancora oggi non è arrivata a conclusione, sebbene nel 1987 (cioè già ventisei anni fa) per la prima volta le donne vincitrici del concorso di magistratura abbiano superano gli uomini: 156 su 300.

Malgrado i fascisti anni Trenta in cui la maggior parte di loro è nata fossero del tutto sfavorevoli all’autonomia femminile, qualcuna tra le prime magistrate aveva alle spalle una famiglia che ne sosteneva l’emancipazione, come Graziana Calcagno (1938-2018) o Emilia Capelli, classe 1937. Per tutte le altre invece la scelta di entrare in magistratura avviene dopo una laurea in giurisprudenza carica di incognite: chi non voleva fare l’avvocata (la battaglia per l’avvocatura femminile era stata vinta all’inizio del Novecento) si era vista costretta a ripiegare sull’insegnamento per garantirsi l’indipendenza economica.

Ma se il concorso seguito alla legge del 1963 aveva finalmente aperto la via femminile alla magistratura, le difficoltà non erano finite e le resistenze continuavano a farsi sentire. Persino nell’Assemblea costituente era prevalsa la volontà maschile contro quella - numericamente minoritaria - femminile, di lasciare in vita la legge del 1919 che escludeva le donne dagli impieghi implicanti poteri pubblici giurisdizionali, a dimostrazione di una mentalità da cui anche uomini illuminati come i padri della nostra Costituzione non riuscivano a distaccarsi.

Una mentalità che una delle otto prime magistrate, Maria Gabriella Luccioli, nata nel 1940, ricorda all’inizio della professione a Roma nel 1965 nelle parole del procuratore generale Giannantonio, che evocava la «predisposizione femminile al ricamo e al cucito», definendo poi «un errore imperdonabile la legge che apriva le porte delle magistratura alle donne». Ne ricavò, come commenta oggi, la consapevolezza di «una pressione ulteriore rispetto a quella cui erano sottoposti i colleghi», e il sentimento, pesante, «che ogni minimo errore mi avrebbe irrimediabilmente ricacciato all’indietro».

Sono però anche anni in cui la magistratura si stava affrancando dalla tradizione fascista e non mancavano colleghi di diversa consapevolezza, se nella relazione dello stesso anno, che promuove Ada Lepore ad una sezione penale della Pretura di Napoli, il giudice Alfonso Scamardella evoca «gli ostacoli che una donna è costretta ad affrontare per essere, ed essere considerata, Magistrato nell’integrale accezione del termine, opposti dal costume, dall’ambiente, dal mucchio dei luoghi comuni su cui per molti è dolce restar seduti, anche se non decoroso…». Luoghi comuni che si traducono in stupore misto a diffidenza se non proprio a ostilità, come ognuna delle otto si trova ad affrontare all’inizio, e non solo, della carriera.

Dalla viva voce delle interessate o da figli e amici, Di Caro inanella nel suo libro un significativo campione di esempi . Un giorno un magistrato, durante un viaggio in treno, confida a un collega in una casuale conversazione che una donna ha osato presentarsi al concorso da aggiunto al nono mese di gravidanza. L’uomo tace, imbarazzato: quella donna audace è sua sorella Giulia De Marco, che molti anni dopo con l’autrice di Magistrate finalmente commenta così la situazione: «Oggi si può parlare di discriminazione, allora non era insensibilità, era incultura».

Un’incultura che nasceva anche da un preciso contesto sociale: nel 1965 in Italia vige ancora il Codice civile del ’42, che decreta la subalternità della donna all’uomo capo della famiglia con potestà su moglie e figli. E ci sono ancora il delitto d’onore, il matrimonio riparatore, l’adulterio per il quale è punita solo la donna, senza dimenticare che, mentre nel 1975 ci sarà la fondamentale innovazione del diritto di famiglia, solo nel 1996 lo stupro è stato inserito nei reati contro la persona e non più contro la morale.

Per questo di tutte loro - come leggiamo a proposito di Letizia De Martino, napoletana del 1937, o di Anny Izzo nata ad Angri nel 1939, o di Raffaella d’Antonio, scomparsa nel 2021 quando aveva appena compiuto 88 anni - chi le ricorda in azione loda sempre l’operosità e il rigore, ma anche il coraggio, soprattutto con gli avvocati, «che a quei tempi erano ancora sospettosi rispetto alle donne in magistratura». E, tra le molte strade percorse nella ricerca, è proprio il coraggio, nella vita privata e in quella pubblica, il filo conduttore dell’avventura che Eliana Di Caro racconta nel suo illuminante volume, senza tralasciare il significato complessivo che tale coraggio femminile, non solo nelle aule giudiziarie, ha significato per la società italiana e le sue libertà.

Magistrate finalmente.
Le prime giudici d’Italia

Eliana Di Caro
il Mulino, pagg. 156, € 15

Il volume sarà presentato al Salone del Libro il 18 maggio alle 15.00 in Sala Rosa: l’autrice ne parlerà con Giulia De Marco e Francesca Bolino

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