L’incognita americana sull’agenda del G20
di Domenico Lombardi
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Le recenti, discusse nomine nel campo degli affari esteri, della difesa e della sicurezza nazionale, le prime sortite, altrettanto discusse, di Donald Trump nel campo minato degli affari internazionali inducono a chiedersi quale sarà la postura della sua presidenza rispetto alla governance dell'economia mondiale. Del resto, la stessa domanda se la sono posta le varie delegazioni nazionali, inclusa quella americana, convenute di recente a Berlino per inaugurare la presidenza tedesca del G20.
Dalla sua elevazione nel 2009 a forum per i leader delle economie sistemiche, il G20 si è focalizzato su due macro aree di lavoro: le politiche di crescita per l'economia mondiale e la governance del sistema finanziario internazionale. Sulla prima, i risultati sono stati modesti negli anni recenti ma, in prospettiva, è dove si potranno registrare maggiori convergenze o minori frizioni. Sulla seconda, si è registrata una maggiore efficacia, tuttavia è l'area dove si potrà verificare lo stallo. Ma procediamo con ordine.
Come ha affermato il segretario nominato al Tesoro Steven Mnuchin, l'obiettivo è di arrivare a una crescita del 3-4 per cento per l'economia americana. Anche se eccessivamente ambiziosa, gli analisti concordano, in ogni caso, su una performance di crescita generalmente più elevata dei livelli attuali. Un ruolo potenzialmente importante avranno gli investimenti infrastrutturali che la nuova amministrazione si propone di effettuare incentivandone il finanziamento soprattutto da parte del settore privato, forse anche con la creazione di una nuova banca delle infrastrutture.L'esigenza di maggiori investimenti nell'economia mondiale come strumento di sostegno alla domanda aggregata, di espansione dell'offerta e di riforma strutturale politicamente fattibile è stata da tempo sostenuta dal G20, appoggiata dall'amministrazione uscente, ma contrastata dalla Germania e, infine, arenatasi per l'assenza di una vera e propria iniziativa programmatica.
Una probabile iniziativa in tal senso dell’amministrazione Trump si inserirebbe, peraltro, sulla scia del governo Trudaeu in Canada, che ha già stanziato o programmato quasi 100 miliardi di dollari canadesi per nuovi investimenti infrastrutturali. Insieme, i due cofondatori nordamericani del G20 possono introdurre una dialettica alternativa rispetto a quella tedesca su questo punto importante dell’agenda internazionale.
Nella macro area della governance del sistema finanziario internazionale, il G20 si è concentrato, da un lato, sull'ampliamento della capacità finanziaria e sulla riforma della governance dell’Fmi e, dall’altro, sul rafforzamento della regolamentazione finanziaria. Rispetto all’Fmi, è ragionevole attendersi il prosieguo dell'attuale tendenza verso la progressiva marginalizzazione dell'istituzione multilaterale. L’amministrazione Trump e il nuovo Congresso bloccheranno un ampliamento delle quote del Fmi. Del resto, tale ampliamento difficilmente si sarebbe materializzato dopo le inattese difficoltà sperimentate con l’ultima iniziativa promossa dal G20 sulla riforma della governance del Fmi, bloccata proprio dal Congresso americano e, poi, ratificata, solo verso la fine della presidenza Obama.
In ogni caso, la nuova amministrazione vedrebbe con esitazione il risultato ultimo di un tale esercizio che si concluderebbe con un ulteriore rafforzamento della posizione azionaria della Cina, di recente già diventata terzo azionista in seno all’organismo multilaterale. Un risultato, peraltro, che entrerebbe in conflitto con la retorica della nuova amministrazione volta a contenere l’influenza della Cina e a sfidarla sul terreno populista della retorica del cambio sottovalutato: del resto, il trattato costitutivo del Fmi assegna poteri regolamentari e sanzionatori in materia di (abusi di) politiche del cambio, che proprio la nuova amministrazione potrebbe minacciare di invocare contro la Cina.
Per l’Eurozona, questo nuovo equilibrio consentirebbe di preservare intatto il proprio potere di voto per un ulteriore lasso di tempo, rinforzandone la tattica passiva e attendista seguita sinora di fronte alla costante erosione a favore delle economie emergenti e dinamiche, ma le imporrebbe l’onere di rafforzare i suoi argini finanziari, a partire dal Meccanismo europeo di stabilità, poiché ogni ulteriore intervento finanziario del Fmi in Europa sarebbe soggetto a difficoltà politiche aggiuntive rispetto a quelle che l’istituzione sta sperimentando e che ne hanno già prevenuto l’adesione all’ultimo programma di assistenza per la Grecia.
I precedenti programmi di ampia scala a favore delle economie periferiche in crisi, sanzionati fermamente dalle economie emergenti, che ne hanno visto il segno dell’eccessiva contiguità della sua alta direzione con l’azionariato europeo, genererebbe un inedito asse tra queste ultime e la nuova amministrazione, la cui retorica a favore del cittadino americano abusato dalla globalizzazione mal si sposerebbe con l’assistenza a condizioni non di mercato a paesi avanzati e con un’elevata base imponibile come, appunto, le economie dell’Eurozona.
L’esigenza cautelativa di rafforzare gli argini finanziari deriva anche dalle crescenti difficoltà che la Federal Reserve avrebbe nell’intervenire, in caso di necessità, a favore dei sistemi finanziari stranieri per puntellarne le vulnerabilita', come accaduto a più riprese nell’Eurozona e in altre economie del mondo. Anche se le dichiarazioni espresse dalla squadra economica di Trump sulla Fed non sono riconducibili a una posizione univoca e coerentemente articolata, risultano in sintonia con quelle della sinistra democratica nel senso di rafforzare la sorveglianza sull’organo direttivo dell’istituzione e delimitarne attentamente i margini di manovra.
Ma è nel campo della regolamentazione finanziaria che è presumibile attendersi un certa discontinuità. Sembra acclarato che la nuova amministrazione procederà nello smantellamento o, almeno, nella sostanziale revisione della Legge Dodd-Frank che, approvata nel 2010, impone maggiore capitale e liquidità a carico del sistema bancario, una supervisione più intensa per le grandi banche e, in generale, un rafforzamento della vigilanza a livello federale. Pur non mancando elementi di distonia, tale impianto ha fornito impeto all’azione del G20 che, tramite il Financial Stability Board, ha alimentato varie iniziative per rafforzare il quadro regolamentare nei sistemi finanziari delle economie avanzate.
Ora, un allentamento dell’intensità regolamentare andrebbe in direzione simmetricamente opposta agli sforzi compiuti dall’Eurozona nell’ambito dell’Unione bancaria, creando dislivelli competitivi tra i due sistemi difficilmente colmabili, col rischio di vanificare il ruolo del FSB. Nell’Eurozona, poi, il processo dell’Unione bancaria rischierebbe di rallentare ulteriormente creando incertezze a carico degli intermediari vigilati ancora maggiori.
Tutti questi sviluppi stanno per materializzarsi nel contesto di un’Europa distratta dalle sue dinamiche interne che ne accresceranno il senso di passività rispetto alle iniziative della nuova amministrazione americana e ai propri interessi strategici nella governance dell’economia mondiale.
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