L’indifferenza alle tragedie collettive e i demagoghi che sanno sfruttarla
Il bambino ivoriano morto aggrappato a un carrello ci colpisce. Ma sulle tragedie collettive e anonime, siamo spesso indifferenti. E c’è chi sa giocare con questa caratteristica, psicologicamente naturale, per il proprio vantaggio
di Vittorio Pelligra
9' di lettura
Ci sono alcune tragedie che rimarranno come incise a fuoco nella memoria di ciascuno di noi. L'ultima in ordine di tempo è, forse, quella del bambino ivoriano morto aggrappato al carrello di un Boeing 777, nel disperato tentativo di raggiungere la Francia. Così come tutti ci ricordiamo del piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano annegato a 3 anni, assieme al fratellino e la mamma, mentre cercavano, su un gommone, di raggiungere le coste greche. L'immagine del corpicino di Alan, adagiato, senza vita, sulla battigia sassosa di una spiaggia turca, fu capace di suscitare una reazione di indignazione mondiale. Politici, attivisti, commentatori, artisti, tutti presero spunto da quella drammatica foto per dire la loro sulla questione immigrazione. Perfino l'Isis usò quell'immagine, come esempio della punizione cui Dio avrebbe sottoposto tutti coloro che sarebbero scappati dalle terre del califfato.
Quando la tragicità diventa universale
Singole storie, che diventano, nella loro tragicità, universali. Ci toccano nel profondo perché rappresentano persone, vite, speranze e desideri che, ora sappiamo, non si realizzeranno mai. Sono “vittime identificabili” dicono gli psicologi, e per questo riusciamo automaticamente a metterci nei loro panni, ad empatizzare, a farci toccare nel profondo dal loro destino. Questa capacità di non rimanere indifferenti alla sofferenza altrui è una delle caratteristiche che più ci rende autenticamente umani. Non per niente l'assenza di questo legame emotivo viene considerato sintomo di gravi stati patologici. E la condivisione del punto di vista dell'altro, delle sue sofferenze e difficoltà, è la molla che ci spinge all'aiuto.
David Hyman, professore di legge alla Georgetown University, ha calcolato che ogni anno, negli Stati Uniti, circa cento persone muoiono nel tentativo di salvare la vita di un estraneo; ma il risultato più interessante è che gli esempi di “mancato salvataggio dimostrato”, cioè casi nei quali qualcuno avrebbe potuto salvare la vita ad una persona e non l'ha fatto, sono straordinariamente rari. Conclude Hyman: «I risultati mostrano un quadro più ricco e rassicurante del comportamento dell'americano medio di fronte alle circostanze di un soccorso (...) l'attuale dibattito non dovrebbe far passare in secondo piano il fatto che nel mondo reale la scelta di rischiare pur di salvare qualcun altro è la regola» (Hyman, D., 2006. “Rescue Without Law: An Empirical Perspective on the Duty to Rescue”, Texas Law Review 84, pp. 653-737).
Meno sensibili alle catastrofi collettive
Eppure, davanti a enormi tragedie come le migliaia di morti nel Mediterraneo, le centinaia di migliaia di morti per catastrofi naturali, le 176 vittime dell'aereo dell'Ukraine International Airlines abbattuto “per errore” da un missile iraniano, la nostra reazione emotiva sembra essere attenuata, quasi che fossimo assuefatti ai grandi numeri, abituati ad una contabilità di morte nella quale i numeri prendono il posto dei nomi e dei volti, cancellandoli e rendendo più difficile metterci nei loro panni e, così, empatizzare con loro.
Chi si ricorda dei duecentomila morti assassinati dalle milizie governative nella regione del Darfur? Chi si ricorda del terremoto del Sichuan che provocò quasi settantamila morti, o di quello di Tangshan che uccise duecentocinquantamila persone o dello tsunami che nel 2004 fece lo stesso numero di vittime colpendo le coste di quattordici nazioni del Sud-Est Asiatico? Pochi. L'aveva già intuito Adam Smith quando, nella sua “Teoria dei Sentimenti Morali”, immagina che un enorme terremoto colpisca “il grande impero cinese” facendolo scomparire e con esso milioni di persone.
Si chiede Smith quanto rimarrebbe colpito un europeo dotato di un senso di umanità davanti a questa terribile calamità: «Esprimerebbe con molto ardore la sua sofferenza per la sventura di quel popolo infelice (…) e quando tutti questi sentimenti d'umanità fossero stati una buona volta espressi, tornerebbe ai suoi affari o al divertimento, riprenderebbe il suo riposo o il suo svago con lo stesso agio e tranquillità di prima, come se nessuna simile catastrofe fosse accaduta. Il minimo guaio che dovesse capitare a lui provocherebbe un disturbo più reale. Se sapesse di dover perdere il suo dito mignolo l'indomani, la notte non dormirebbe, ma, a patto che non li abbia mai visti, russerebbe profondamente e tranquillamente sulla rovina di cento milioni di suoi fratelli, e la distruzione di quell'immensa moltitudine gli sembrerebbe ovviamente un oggetto meno interessante della sua irrisoria disgrazia».
La mancanza della percezione emotiva
Smith non ci dice che siamo malvagi, tutt'altro. Ricordiamoci che nella prima pagina dello stesso libro aveva scritto che: «Per quanto l'uomo possa essere supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono a interessarsi alla sorte altrui e (...) l'altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla». Quello che Smith ci sta dicendo, piuttosto, è che la distanza, il numero e la non identificabilità – «a patto che non li abbia mai visti»- delle vittime, le rende meno presenti alla nostra intuizione morale e, quindi, meno importanti e capaci di suscitare una vera reazione. Dietro quei numeri enormi si nasconde una realtà di sofferenza e atrocità che, però, noi non percepiamo, proprio perché nascosta dai numeri. E se non la percepiamo, quella realtà tragica non ci spinge ad agire. «Se guardo alla massa, non agirò mai. Se guardo al singolo invece, si», soleva ripetere Madre Teresa di Calcutta.
Come dovremmo reagire a queste tragedie individuali e collettive? Se crediamo che ogni vita umana abbia un valore – e chi sarebbe disposto a negarlo o ad affermare che alcune vite valgono meno di altre? – la perdita di N vite dovrebbe essere N volte più dolorosa e grave della perdita di una singola vita. Dovrebbe toccarci e muoverci a compassione in modo proporzionalmente maggiore rispetto ad un singolo episodio. Addirittura, secondo alcuni, il valore della perdita di una vita dovrebbe aumentare con l'aumentare del numero di vite perse, perché le stragi o i genocidi mettono a repentaglio la stabilità stessa della convivenza sociale e quindi, al crescere delle vittime, dovrebbe crescere il valore di ogni singola vita perduta.
Nei fatti tuttavia noi non ragioniamo così, ma all'opposto. I modelli descrittivi ci dicono che il costo marginale della perdita di una vita è sempre decrescente. Cioè che, all'aumentare del numero delle morti, la reazione a ogni ulteriore vittima sarà via via più tenue. Immaginate che il Ministero dell'Università voglia finanziare un istituto di ricerca medica che ha sviluppato una nuova terapia per una grave malattia. Si parla di un finanziamento di 10 milioni di euro. Quante vite dovrebbe salvare questa terapia, per meritarsi un finanziamento così ingente? La cosa interessante è che nelle risposte della maggior parte degli interpellati, il numero cresce al crescere della popolazione a rischio di essere colpita da quella malattia.
In altre parole, se la malattia può contagiare al massimo 15.000 persone, allora, per giustificare il finanziamento, la terapia dovrebbe poter salvare almeno 9.000 persone. Se però la popolazione a rischio contagio è di 290.000, allora lo stesso finanziamento sarebbe giustificato solo se la terapia salvasse almeno 100.000 persone. Le 9000 vite salvate nel primo caso valgono di più, cioè quanto le 100.000 del secondo scenario (Fetherstonhaugh, D., et al. 1997. “Insensitivity to the value of human life: A study of psychophysical numbing”. Journal of Risk and Uncertainty, 14, pp. 283-300).
Persone come numeri
C'è anche un altro aspetto in gioco, che spiega non solo perché la nostra reazione non aumenta proporzionalmente all'aumentare del bilancio delle vittime, ma perché, addirittura, tende a diminuire: si tratta dell'innaturalità dei numeri e della difficoltà a empatizzare con più di una persona alla volta. Ci viene chiesto di contribuire con una donazione alle cure di un piccolo paziente. La sua terapia salva-vita costa 300 mila dollari. Quanto saremmo disposti a donare? In media il gruppo di partecipanti allo studio dona 2,5 dollari.
A un altro gruppo di partecipanti viene chiesto di contribuire alle cure salva-vita di otto piccoli pazienti nelle stesse condizioni. In questo caso la cifra media non aumenta, non rimane neanche inalterata, ma diminuisce. Vengono donati, infatti, 1,25 dollari (Kogut, T., Ritov, I., 2005. “The singularity effect of identified victims in separate and joint evaluations”, Organizational Behavior and Human Decision Processes 97(2), pp. 106-116).
Al crescere dei numeri perdiamo il contatto personale con le vittime e questo rende complicata l'attivazione della nostra intuizione morale. Nascosti dietro i numeri, le vite, le storie interrotte, le tragedie individuali e collettive diventano aride statistiche, incapaci di attivare la nostra emotività, perfino la nostra attenzione e, quindi, di suscitare la nostra reazione. Non è un caso che allo Yad Vashem, il museo dell'olocausto di Gerusalemme, per ricordare in maniera efficace ed emotivamente coinvolgente il milione e mezzo di bambini uccisi dai nazisti, ci siano delle voci registrate che, incessantemente, pronunciano i loro nomi e la loro età. Non c'è niente che renda chiaramente l'idea del singolo e della moltitudine come un elenco di nomi. Non cifre, ma persone, nome, cognome ed età.
Intuizione e analisi
Navighiamo e comprendiamo la realtà attraverso due modalità connesse, ma fondamentalmente differenti; modalità che alcuni chiamano “sistema 1” e “sistema 2”. Il primo è intuitivo, narrativo ed esperienziale, mentre il secondo, invece, riguarda maggiormente il pensiero analitico, deliberativo e razionale. Il primo è naturale ed automatico; il secondo, invece, implica sforzo e attenzione. I due sistemi interagiscono per darci il senso delle esperienze che viviamo, metterci nelle condizioni di scegliere in maniera ottimale davanti alle situazioni che ci si presentano e, generalmente, lo fanno molto bene. Il “sistema 1”, in particolare, è fortemente connesso ai comportamenti di aiuto. Sentire qualcosa per l'altro, empatia, compassione, tristezza, gioia, è l'elemento indispensabile che ci rende disponibili alle varie forme di aiuto. L'intuizione morale precede i giudizi morali. Senza un coinvolgimento emotivo, dunque, la nostra naturale propensione all'aiuto si affievolisce; a volte, rimane del tutto silente.
È un fenomeno noto come “intorpidimento psichico” (psychic numbing). La nostra capacità di coinvolgimento emoivo è limitata, le risorse psicologiche che abbiamo a disposizione per comprendere gli altri e per metterci nei loro panni sono scarse e ad un certo punto, al crescere del numero degli altri, si esauriscono. Diventiamo insensibili e distaccati, perdiamo reattività e la più basilare capacità di provare compassione. Per questo, per esempio, siamo capaci di rimanere indifferenti e perfino di diventare cinici davanti al tragico destino di migliaia di persone che perdono la vita nel tentativo di inseguire il sogno di una vita più dignitosa.
Giustifichiamo la nostra insensibilità con presunte colpe delle vittime, con improbabili complotti dei poteri forti, con le politiche buoniste, con l'ideologia globalista e con altre mille fesserie, pur di non ammettere che le nostre risorse empatiche si sono esaurite; che la nostra naturale capacità di sentire “per” e “con” gli altri si sono spente; che il numero e il peso delle tragedie ha intorpidito il nostro naturale senso morale e ci ha trasformato in spettatori imbambolati e distaccati.
Ma poi, ogni tanto, purtroppo, arrivano gli Ani Guibahi Laurent – così si chiamava il ragazzino ivoriano morto assiderato sotto la pancia dell'aereo – e gli Alan Kurdi, a ricordarci, individualmente, che un cuore ancora ce l'abbiamo e che quando ci sembra di no, è perché in realtà ci stiamo difendendo dall'esistenza triste di spettatori impotenti davanti a tragedie più grandi di noi. Non è certo una giustificazione al ciniscmo, questa, ma la constatazione di un paradosso nel quale è più facile essere mossi a pietà dalla morte ingiusta di un bambino, che da quella, altrettanto ingiusta, di mille, centomila bambini uguali a lui.
Ricorrere alla razionalità
Ciò che queste ricerche, così come anche la nostra esperienza quotidiana rendono evidente, è il fatto che non possiamo fare affidamento esclusivo sulle nostre intuizioni morali per comprendere e agire di fronte a sfide umanitarie di grandi proporzioni come le emigrazioni di massa o le grandi ingiustizie globali che il nostro sistema economico continua a produrre, perché le nostre intuizioni morali ci portano, in questi casi, all'apatia e all'inazione. Dobbiamo fare ricorso al pensiero e alla scelta razionale, non solo basarci sull'intuizione, ma sull'argomentazione morale. Qui devono intervenire innanzitutto la politica, le istituzioni e il diritto. A riequilibrare lo squilibrio tra empatia individuale e indifferenza collettiva, devono operare regole giuste, procedure impersonali, ma proprio per questo, valide sempre e per tutti. Occorre un diritto umanitario all'altezza delle sfide e rappresentati eletti intelligenti, competenti e umani. Le istituzioni camminano anche sulle loro gambe.
Il consenso “inumano”
L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono leader incapaci di comprendere questo paradosso, ma capacissimi di sfruttare l'intorpidimento morale dei loro elettori a fini di consenso. Gente che sfrutta la nostra buona fede (psicologia) per fini di potere, come un hacker carpisce la nostra buona fede (informatica) per rubarci i dati della carta di credito. Leader disposti a passare sulla pelle di quelle moltitudini senza volto – e quindi senza impatto emotivo – pur di coprire la loro incapacità di comprendere e risolvere le più importanti sfide dell'oggi. Ma la politica non è l'unico attore importante, qui. Ognuno di noi può fare la differenza, a partire dal momento in cui capiremo che i problemi del mondo sono troppo grandi e troppo urgenti per essere risolti una persona alla volta, ma che, comunque, ognuno di noi può essere parte della soluzione, se solo lo volesse, qui e ora.
Per approfondire:
● Iran, il Boeing 737 scambiato per aereo nemico e abbattuto per «errore umano»
● Bambino morto in aereo, gli insegnanti: “Siamo sotto choc” (video)
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