Banche centrali sotto pressione

L’inflazione che sale e l’inversione a U della politica monetaria

di Guido Crosetto e Gianclaudio Torlizzi

(dpa Picture-Alliance/AFP)

3' di lettura

Non bisogna essere degli osservatori particolarmente attenti per evidenziare la situazione di grande difficoltà in cui si ritrovano oggi le banche centrali. Sotto i riflettori dei mercati è finita in particolare la Federal Reserve, che, dopo aver adottato un approccio di politica monetaria fortemente espansivo a partire dallo scoppio della pandemia, conferendo maggiore importanza al mandato della piena occupazione rispetto a quello della stabilità dei prezzi, deve oggi fare i conti con un evidente problema inflazionistico. La criticità verte in particolare sul fatto che a un indice dei prezzi al consumo giunto al +7,5%, il più elevato dal 1982, si accompagnano ancora massicce dosi di quantitative easing oltre che un livello dei tassi interbancari ancora allo zero per cento. Davanti alle crescenti pressioni sul fronte dei prezzi, gli operatori finanziari sono dovuti correre velocemente ai ripari, riducendo l’esposizione in obbligazioni. Tanto da spingere il tasso di interesse del titolo Usa a 2 anni sopra il livello pre-Covid. In sostanza, gli operatori giudicano dunque l’istituto di Washington “dietro la curva”: una condizione che ne mette a repentaglio la credibilità che sarà possibile a questo punto ripristinare con un’inversione a U di politica monetaria. Dallo shock inflazionistico a quello del debito però il passo può essere breve. Se consideriamo le proiezioni del CBO al 2031, aggiornandole all’attuale tasso del titolo a 7 anni, il costo degli interessi del debito Usa balza a 6,2 mila miliardi di dollari: una cifra non distante dall’ammontare totale del debito federale nel 2005. In una situazione simile si trova la Bce, certamente più riottosa rispetto alla Fed nel porre fine anzitempo alle politiche di stimolo monetario, ma comunque destabilizzata dal rialzo dell’indice dei prezzi al consumo al 5 per cento.

Il percorso sembra, insomma, tracciato: secondo Morgan Stanley, dal maggio 2022 al maggio 203 i bilanci delle banche centrali dei Paesi del G4 assisteranno a una riduzione di 2 mila miliardi di dollari, quattro volte superiore al periodo 2018-2019. Il quadro attuale così articolato si presta naturalmente a un elevato grado di volatilità, disordine dei flussi di capitale e possibili credit event che potrebbe rendere vulnerabili Paesi come il nostro caratterizzati da un elevato grado di indebitamento. Non è un caso se nelle ultime settimane lo spread Btp-bund sia tornato a veleggiare in area 160 punti base. Come sia stato possibile per la Fed e la Bce ritrovarsi in una situazione tanto complicata è ancora materia di dibattito: la spiegazione più valida a nostro avviso è che sia stato enormemente sottovalutato l’impatto che il covid e le politiche climatiche hanno sortito sul mercato delle materie prime, dell’energia e del lavoro. Dinamiche, queste, che solo parzialmente verranno riassorbite una volta che la situazione sanitaria si sarà normalizzata e contro il cui impatto inflazionistico una politica monetaria fortemente restrittiva non potrà fare molto.

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In una condizione diametralmente opposta si ritrova invece la Cina il cui tasso inflazionistico veleggia allo 0,9%, evidenziando così un gap particolarmente accentuato rispetto agli Usa (il massimo dagli inizi degli anni 80) e all’Eurozona. A pesare sui prezzi è certamente giunto il forte rallentamento del comparto delle costruzioni, vittima della Common Prosperity, ma è indubbio come ad agire al ribasso sui prezzi abbia giocato anche la revisione del green deal decisa dal governo Pechino che ha provocato il crollo del prezzo del carbone, principale fonte energetica del Celeste Impero. Finora, lo stato di tensione nel comparto dello shipping (il costo del container per la tratta Cina-Europa continua a veleggiare sui massimi storici di $15.000) ha contribuito a proteggere i mercati occidentali dai prodotti made in China. Ma, nel momento in cui il graduale ritorno alla normalità si tradurrà nell’abbandono da parte del governo di Pechino delle politiche Covid-zero, sarà lecito attendersi un raffreddamento dei costi di spedizione che potrebbe aprire al rischio invasione di prodotti asiatici. Come reagiranno Bruxelles e Washington? Alzando probabilmente il muro del protezionismo sotto l’egida di stringenti standard ambientali di cui la carbon border adjustment mechanism varata dalla Ue è l’emblema. Già oggi il mercato mondiale dell’acciaio è di fatto spaccato tra l’area atlantica e quella asiatica in ragione dell’adozione delle misure di salvaguardia, confermando il processo di de-globalizzazione in atto. In questo nuovo scenario di spaccatura permanente delle supply chain mondiali, dagli effetti indubbiamente inflazionistici, torna alla ribalta la questione dei salari, particolarmente delicata soprattutto in Paesi come l’Italia la cui competitività deriva anche dai bassi livelli di retribuzione rispetto ai competitor europei. Negare tuttavia che esista un problema di perdita di potere di acquisto tra le fasce meno abbienti della popolazione, adducendo come motivo la transitorietà delle attuali dinamiche inflazionistiche, rischia di far venire meno negli anni a venire un sostegno all’economia che nel nuovo paradigma incentrato sulla de-globalizzazione e reshoring sarà sempre più importante.

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