L’inflazione è una droga: lezione che ancora oggi viene da Weimar
Cent’anni: un secolo. Nel linguaggio comune, l’eternità per antonomasia. Un secolo basta per cancellare una civiltà, rendere irriconoscibili città e nazioni, estinguere, salvo pochissime eccezioni, tutti gli abitanti della terra.
di Ignazio Angeloni
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Cent’anni: un secolo. Nel linguaggio comune, l’eternità per antonomasia. Un secolo basta per cancellare una civiltà, rendere irriconoscibili città e nazioni, estinguere, salvo pochissime eccezioni, tutti gli abitanti della terra. Ma non è bastato a rimuovere dalla sensibilità profonda del popolo tedesco il segno di quella che rimane una delle esperienze più traumatiche della sua storia: l’iperinflazione della repubblica di Weimar, del cui culmine ricorre quest’anno il centenario. Ne troviamo traccia in alcuni tratti tipici della tedesca: l’avversione a volte ossessiva per ciò che cambia, visto come foriero di instabilità; la frugalità sentita come porto sicuro nelle avversità. Vale ancora quello che Costantino Bresciani Turroni, economista e rappresentante italiano nella commissione per le riparazioni di guerra, scriveva nel 1931: «Si comprende facilmente la ragione per cui l’esperienza dei tristi anni 1919-23 pesa sempre come un incubo sul popolo tedesco».mens
La giovane repubblica era appena emersa dalla guerra perduta in cui l’avevano condotta la combinazione del militarismo prussiano (di cui offre un crudo ritratto il film Niente di nuovo sul fronte occidentale, trasposizione del capolavoro di Remarque premiata con quattro Oscar questo’anno) e le sconclusionate mire imperialistiche dell’Austria-Ungheria: uno stato senza identità unitaria, un uovo con due tuorli, come ha scritto Cristopher Clark nel suo magistrale saggio sulle origini della grande guerra (I Sonnambuli; Laterza, 2013).
Dopo il ritorno dei combattenti dai campi di battaglia e il fallimento della rivoluzione comunista di Klaus Liebknecht e Rosa Luxembourg, uccisi nel 1919 dalle famigerate Freikorps, squadre paramilitari poi confluite nelle SA di Hitler, la giovane repubblica aveva la possibilità di trovare una sua età dell’oro. Libertà politica e artistica fiorivano a dispetto degli stenti: Kandinski e Ernst nella pittura, Brecht e i Mann nella letteratura, Gropius nell’architettura, i fisici Heisenberg e Born, fra molti altri, esprimevano una vivacità intellettuale europea che il nazismo avrebbe estirpato o fatto emigrare per sempre.
Come in ogni conflitto, l’economia di guerra aveva creato inflazione. Ma era un fenomeno limitato, che poteva essere fermato. Bresciani Turroni dimostra con dati e argomenti (Le vicende del marco tedesco, Egea SpA, 1931) che dopo l’armistizio del novembre 1918 e prima che il trattato di Versailles (1919) e l’ultimatum di Londra (1921) imponessero alla Germania le gravose riparazioni di guerra che John Maynard Keynes avrebbe stigmatizzato ne Le conseguenze economiche della pace, i semi del disastro monetario venivano già posti internamente. Alla loro origine erano vari fattori: inerzia e debolezza dei governanti, alimentate dalla situazione sociale e dai timori di rivoluzione comunista al nord e fascista in Baviera; interessi di gruppi industriali e di speculatori che nell’inflazione si arricchivano sul cambio e sulle derrate alimentari; soprattutto, la nefasta influenza di idee economiche errate. Sono queste ultime che più ci riguardano oggi, perché quell’influenza può ripetersi. Certo, l’inflazione di Weimar è un evento unico, con caratteristiche irripetibili. Ma come un laboratorio in cui condizioni estreme aiutano a capire l’essenza della materia, essa contiene in nuce elementi di tutte le inflazioni di tutti i tempi.
La classe politica di Weimar e la sua banca centrale, la Reichsbank (il cui governatore Rudolf Havenstein come per una nemesi da tragedia greca sarebbe morto proprio il giorno della stabilizzazione del marco), erano in quegli anni prigionieri di due idee, tanto errate quanto in apparenza incontrovertibili. Vale la pena di capirle, in ossequio al detto «se le conosci le eviti».
La prima è la cosiddetta teoria delle cambiali commerciali, o real bills doctrine. Essa sostiene che quando la creazione di moneta ha a fronte attività produttive, essa non porta inflazione perché alla creazione di mezzi di pagamento corrisponde un’equivalente creazione di beni. È facile comprendere il fascino che una teoria del genere esercitava su industriali e speculatori intereressati a perpetuare il finanziamento delle loro attività a dispetto dell’inflazione galoppante. La “dottrina” è errata per il semplice fatto che essa non pone alcun limite all’offerta di moneta e al livello dei prezzi.
Ma neppure essa avrebbe procurato soverchi danni se non si fosse combinata con un’altra idea che anni dopo l’economista americano James Tobin avrebbe confutato, chiamandola «post-hoc-ergo-propter-hoc».
La teoria, cioè, secondo cui fra due eventi economici temporalmente successivi l’uno all’altro debba necessariamente esistere un rapporto di causa diretto. Può accadere invece che il rapporto sia inverso, e sia l’evento successivo a causare quello precedente.
Durante la guerra, con un’inflazione limitata, adeguamenti del valore del marco rispetto al dollaro o alla sterlina tendevano a seguire variazioni del suo valore interno (rispetto ai beni di consumo). Nel dopoguerra inizia ad accadere l’opposto: è la svalutazione del cambio del marco che spesso anticipa, e addirittura eccede, l’aumento dei prezzi interni, e ancor più quello dei redditi da lavoro, con conseguente deprezzamento reale del cambio e impoverimento delle classi medie. Nella confusione che l’inflazione genera, l’unico riferimento oggettivo per chi fissa i prezzi è la quotazione del marco nelle borse di Londra e New York. Il grande errore dei politici del tempo e della banca centrale fu ritenere che fosse il cambio a causare i prezzi, anziché l’opposto, e che da questo seguisse un aumento della domanda di mezzi monetari che la banca centrale doveva per forza soddisfare per evitare il tracollo dell’economia (oggi si chiamerebbe “recessione”). Siccome sulla quotazione del marco pesavano anche le riparazioni di guerra, era facile, e anche politicamente attraente, concludere che erano le potenze vincitrici a causare l’inflazione in Germania con le loro condizioni capestro.
Poteva la Germania sopportare le riparazioni imposte a Versailles ed evitare al tempo stesso il disastro economico? Keynes lo ha negato, colla sua abituale forza retorica e preveggenza. In un saggio recente, lo storico italiano Alessandro Roselli (Hyperinflation, depression, and the rise of Adolf Hitler; Economic Affairs, 2021) sembra propendere per la tesi opposta. Comunque sia, ancora nell’agosto del 1923, a tre mesi dalla stabilizzazione del marco e dalla sua stessa morte per infarto, Havenstein, mentre i prezzi salivano di venti volte in un solo mese, ribadiva che l’inflazione originava dall’estero (oggi si chiamerebbe «inflazione importata», o «shock da offerta») e che la banca centrale doveva accomodarla. Parole che colpiscono a un secolo di distanza. Così come colpisce, pur nella diversità delle situazioni, la similitudine con quelle usate dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli nel 1974 per giustificare l’accomodamento monetario alla crisi petrolifera.
Nel dramma del popolo tedesco in quel momento si erge la figura di Hjalmar Schacht, a buon titolo ritenuto uno dei più grandi banchieri centrali della storia, la cui reputazione non è stata compromessa neanche dalla successiva parziale acquiescenza al nazismo. Nominato dal neo cancelliere Gustav Stresemann «commissario per la moneta», ovvero di fatto sostituto del governatore, relegato in un ufficio provvisorio, un sottoscala prima usato come armadio delle scope, Schacht sa che solo un’azione decisa, con impatto psicologico immediato e risolutivo può fermare insieme inflazione e svalutazione e salvare l’economia. Attende il 20 novembre, quando il valore del marco tocca una frazione precisa: un milionesimo di milionesimo del valore aureo anteguerra. A quel punto istantaneamente taglia dodici zeri e annuncia che la banca centrale, di cui diventerà ufficialmente presidente dopo la morte del povero Havenstein, non finanzierà più il governo. Il vecchio marco-carta vale ora mille miliardesimi della nuova valuta, il marco-rendita, la cui offerta viene attentamente razionata; a buon conto, la convertibilità sarà consentita solo l’anno dopo, a riforma riuscita. L’effetto è miracoloso: prezzi e cambio si fermano; il bilancio pubblico, prima penalizzato dall’inflazione, torna in pareggio; i generi alimentari introvabili ricompaiono sui banchi dei negozi. La Germania ritrova un relativo benessere che sarebbe durato anni, fino a che la Grande Depressione non avrebbe portato al nazismo.
Oggi, mentre le vicende di cui sopra continuano a turbare i sonni fra il Reno e l’Oder, non è inutile ripassare le lezioni che se ne traggono. L’inflazione ha sempre molte cause – una guerra, una variazione dei prezzi importati, o, recentemente, una crisi sanitaria. È raro, se non impossibile, che essa si sviluppi e duri senza condizioni monetarie permissive. Mentre essa prende piede, sarà sempre difficile distinguerne le cause, nella sequenza confusa di eventi ognuno dei quali può essere interpretato come conseguenza di un altro. Esisteranno sempre plausibili ragioni e consiglieri più o meno interessati che suggeriscono alla banca centrale di procrastinare le azioni di contrasto. Alla fine, però, non vi sono alternative alla politica monetaria per arrestarla.
Come ha scritto Lord D’Abernon, ambasciatore inglese a Berlino dal 1920 al 1925, critico implacabile dei governanti tedeschi e fonte di molte delle nostre conoscenze su quel periodo: «In un modo o nell’altro l’inflazione è una droga. Alla fine è fatale, ma prima aiuta i suoi elettori a superare tanti momenti difficili».
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