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L’inflazione vischiosa e i rischi per l’eurozona

In Italia continuiamo ad avere essenzialmente un’inflazione “cattiva” da carenza di offerta, non un’inflazione “buona” da surriscaldamento della domanda

di Marcello Minenna

Inflazione, Gentiloni: "Scenderà certamente nel 2023"

4' di lettura

Il rallentamento dell'inflazione che ha caratterizzato l'area euro da novembre in poi sta perdendo vigore. Le stime preliminari dell'Eurostat per il mese di febbraio 2023 indicano, infatti, che su base annua la variazione percentuale dell'indice armonizzato dei prezzi al consumo (HICP) è stata dell'8,5% a fronte di un'attesa dell'8,2% e in calo di appena lo 0,1% rispetto al dato di gennaio (9,2%). Come termine di paragone si consideri che a dicembre 2022 l'inflazione annua si era attestata al 10,1% e che, quindi, il calo di gennaio era stato molto più pronunciato di quello del mese scorso.

Una differenza importante rispetto ai mesi precedenti è che a febbraio l'HCPI non si è “limitato” a mantenersi su valori più alti rispetto a un anno fa ma ha ripreso a salire in termini di punti indice. Anche in merito al contributo delle diverse componenti del paniere ci sono novità interessanti (cfr. Figura 1). Stavolta il driver principale non è più l'inflazione energetica (scesa al 13,7% annuo contro il 18,9% di gennaio e, soprattutto, contro il 40% della primavera scorsa). Adesso a correre di più sono i prezzi dei beni alimentari (+15% annuo includendo alcol e tabacchi) ma anche quelli dei servizi (+6,8%) e dei beni industriali non energetici (+4,8%).

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AREA EURO - TASSO DI INFLAZIONE ANNUALE
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Queste dinamiche dipendono dal fatto che i rincari sull'energia ci mettono tempo a essere incorporati nei prezzi degli altri beni e dei servizi; in più in alcuni settori ci sono ancora problemi nelle catene di approvvigionamento. In altri termini continuiamo ad avere essenzialmente un'inflazione “cattiva” (da carenza di offerta) e non un'inflazione “buona” (da surriscaldamento della domanda).Il quadro dovrebbe migliorare già da questo mese anche grazie all'effetto-base, ossia allo slittamento del dato di partenza utilizzato per calcolare la variazione dei prezzi. A marzo 2022 l'indice HICP aveva fatto un grosso balzo all'insù, e quindi stavolta il confronto su base annua sarà fatto rispetto a valore già piuttosto elevato. Al di là di questi aspetti “contabili”, secondo gli analisti nella seconda parte dell'anno dovremmo vedere una moderazione più decisa dell'inflazione perché l'effetto di trasmissione dall'energia ai prezzi degli altri beni e servizi dovrebbe progressivamente dissiparsi. Dai dati dell'ultima indagine della BCE diffusi in settimana emerge che anche le aspettative dei consumatori sull'inflazione futura vanno in questa direzione.

A giorni l'Istituto di Francoforte dovrebbe rilasciare le previsioni aggiornate sull'andamento dell'inflazione nella nostra area valutaria e avremo qualche informazione in più. Intanto, però, diversi membri del Consiglio Direttivo hanno fatto capire che, pur ritenendo probabile un significativo rallentamento dell'indice generale dei prezzi tra qualche mese, adesso la priorità è rimettere sotto controllo l'inflazione core, quella che si concentra sulle componenti meno volatili del paniere. Stando alle stime preliminari dell'Eurostat, a febbraio l'inflazione core ha continuato a salire portandosi al 5,6% annuo (il valore più alto da quando esiste l'euro) e rischia di restare alta nel breve termine. Dato l'obiettivo istituzionale del 2%, chiaramente ciò mette la BCE fuori target. Per questo motivo Francoforte sembra intenzionata a procedere speditamente coi rialzi dei tassi d'interesse iniziati a luglio 2022.

Per giovedì prossimo i mercati hanno già scontato un altro aumento di 50 punti base che porterà il tasso sui depositi bancari in BCE al 3% e quasi certamente non sarà l'ultimo da qui a giugno. I membri più aggressivi del board puntano a uno o più altri maxi-rialzi entro l'estate e, anche tra quelli più accomodanti, alcuni hanno dichiarato che per riportare l'inflazione sotto controllo i tassi dovranno restare alti per un bel po' di tempo.Non a caso, dopo la pubblicazione delle stime flash sull'inflazione di febbraio, le principali banche d'investimento hanno rivisto (di nuovo) al rialzo la loro previsione del tasso terminale, cioè il valore massimo che il tasso di deposito raggiungerà nell'attuale ciclo di rialzi. Adesso la maggior parte di loro stima un valore del 4% da raggiungere entro fine anno (al più entro inizio 2024), pari a un incremento di 150 punti base rispetto al livello corrente del tasso di deposito.Tutto ciò non sarà indolore per i paesi ad alto debito, come il nostro.

Applicando al tasso di deposito degli spread in linea con quelli attualmente osservati sui mercati, verso fine 2023 il rendimento sui titoli di Stato decennali di Italia e Grecia potrebbe girare intorno al 6% e su quelli di Spagna e Portogallo al 5%. Non solo. È risaputo che l'inflazione elevata migliora la sostenibilità del debito perché ne abbatte il costo reale e rende quindi “tollerabili” tassi d'interesse più alti. Ma se il picco inflattivo dovesse rientrare già nel medio termine e invece i tassi restassero alti a lungo, i paesi più indebitati potrebbero trovarsi a dover rifinanziare il debito in scadenza a tassi d'interesse reali proibitivi.Altrettanto preoccupante sarà l'impatto sull'economia dell'Eurozona perché il persistere di condizioni finanziarie restrittive potrebbe deprimere eccessivamente la domanda aggregata e innescare una recessione. Timori simili ci sono anche al di là dell'Atlantico dove, come da noi, è in atto un ciclo di rialzi dei tassi che potrebbe arrivare sino al 5,5%. Con un distinguo fondamentale però: negli USA l'inflazione è effettivamente sintomo di un'economia surriscaldata mentre, come detto, nell'area euro sinora la crescita dei prezzi è dipesa essenzialmente da uno shock negativo dal lato dell'offerta.

Anche le recenti pressioni salariali (coerenti con l'aumento dell'inflazione nel settore dei servizi) sono abbastanza contenute e non paiono segnaletiche di un mercato del lavoro in buona salute come quello statunitense. Confrontando l'andamento del costo del lavoro negli USA e nell'Eurozona (cfr. Figura 2) emerge, infatti, una dinamica piuttosto eterogenea. Negli Stati Uniti, dopo lo shock pandemico, il costo del lavoro ha ripreso a crescere a ritmi abbastanza sostenuti assestandosi intorno al 5% annuo nel 2022. Al contrario, nell'area euro la ripresa è stata più lenta e meno vigorosa, con un picco vicino al 4% raggiunto nei primi due trimestri del 2022 cui è seguita un'importante correzione al ribasso nel terzo trimestre (2,9%).

VARIAZIONE PERCENTUALE ANNUA DELL’INDICE DEL COSTO DEL LAVORO
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Nella nostra area valutaria il rischio di spirali prezzi-salari appare insomma assai più contenuto che oltre-oceano e rende meno giustificata una politica monetaria molto restrittiva. La speranza è che anche a Francoforte se ne rendano conto e valutino di conseguenza le prossime mosse.
Marcello Minenna, Economista
@MarcelloMinenna


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