L’innovazione e i vagoni di mezzo
di Stefano Manzocchi
4' di lettura
Analisti, imprese, attori sociali e della politica: tutti proviamo la sensazione di trovarci a volte un passo indietro, o con una lente sfocata, rispetto alle trasformazioni impetuose che gli sviluppi tecnologici e la globalizzazione portano di questi tempi in evidenza. Parafrasando il poeta, «ci sono più cose in cielo e in terra di quante se ne sognano nella nostra filosofia» di osservatori o protagonisti dell’economia e della società contemporanea. Nei giorni scorsi, due storie dal settore dell’auto hanno portato in luce i mutamenti in corso e i nuovi scenari, e la necessità di comprendere tutti gli elementi delle trasformazioni per poi sviluppare strategie adeguate ai tempi.
A margine di una conferenza, Sergio Marchionne ha affermato che presto la pressione di nuovi attori «sarà inesorabile, specie in un mondo conservatore e lento a reagire come quello dell’auto», per concludere che «nel mercato di massa il marchio non sarà più così importante». Un quadro a tinte fosche per gli incumbents dei segmenti standardizzati, con un ridimensionamento strategico delle competenze meccaniche a vantaggio di quelle informatiche per via dell’avvento dell’auto “che si guida da sola”. Quasi in simultanea, Toyota ha chiuso lo stabilimento di Altona, in Australia, dopo 54 anni di produzione. Secondo Wade Noonan, ministro dell’industria e del lavoro, «la fine di un’era in un terribile giorno», che porterà alla perdita di lavoro per circa 2.600 persone. Prima di Toyota la stessa decisione era stata presa da Ford, in Australia da 91 anni. A fine ottobre l’ultima azienda del comparto, Holden, chiuderà i battenti, ponendo fine all’industria automobilistica nel Paese.
Un punto importante, nella drammaticità di quest’ultima vicenda, è che la scarsità di fornitori locali di componenti e l’assenza di un ambiente industriale di filiera hanno contribuito in misura rilevante a condurre alla scomparsa dell’industria dell’auto in Australia: troppo alti i costi di fornitura dall’estero, e a quel punto meglio importare direttamente i veicoli finiti, anche in considerazione del costo del lavoro degli aussie.
Mentre, quindi, resta vero che imprese, capitale e lavoro sono sempre più mobili, che il ruolo strategico di antiche competenze è posto in discussione e che i marchi conteranno meno nell’auto di massa del futuro, la specializzazione e la tradizione di una filiera industriale appaiono ancora fattori competitivi nelle scelte di localizzazione delle imprese.
Il patrimonio produttivo, insomma, conta molto sia nell’industria sia nei servizi, dove avremo ingenti numeri di lavoratori spiazzati nel prossimo futuro (si pensi solo alle conseguenze del Fintech), e va alimentato non solo per il presente, ma per il futuro della società che verrà. Alimentato non significa conservato passivamente, ma aggiornato sia per evitare di trovarsi spiazzati da automazione e globalizzazione con gravi conseguenze anche sociali, sia per cogliere le opportunità che le trasformazioni in corso promettono. Non si tratta, con l’attuale onda di Industria 4.0 o 5.0, di immaginare un mondo dove le nuove occasioni di impiego riguardino solo gli informatici o i produttori di robot, ma di leggere le potenzialità di settori “tradizionali” con le lenti giuste. In fondo, Amazon ha cominciato vendendo libri e Ikea mobili, e quando ci lamentiamo delle sorti sventurate del nostro Paese nei marosi della globalizzazione dovremmo ricordare che il successo strepitoso di Fincantieri negli ultimi anni ha fatto leva sull’eccellenza delle Pmi del legno-arredo e della componentistica nel Triveneto.
Al di là delle storie che incontriamo, incoraggianti o deprimenti che siano, le prime domande da porsi sono naturalmente se esistono regolarità e quali; e che ruolo possano avere i diversi attori sociali. Sappiamo, per esempio, che mentre tecnologia e globalizzazione distruggono lavoro, se ne può creare di nuovo, ma tendenzialmente in settori, aree geografiche e con salari diversi da prima. Questo apre uno spazio sconfinato, ancorché accidentato, da coprire per le azioni di policy: formazione, coesione territoriale, politica industriale, politica fiscale e dei redditi. Gli attori degli interventi non possono che essere, oltre alla politica e alla pubblica amministrazione, le imprese con i lavoratori. Per quanto attiene alle risorse ingenti da mettere in campo, lo stesso “grande gioco” delle trasformazioni produttive indica la direzione: per esempio, con la web tax che riconduca il gettito fiscale verso i territori dove le transazioni si determinano.
Un’altra regolarità si riscontra nella relazione tra competenze e partecipazione nelle catene globali del valore (Cgv). Stime recenti del Luiss Lab indicano che l’intensità della partecipazione alle Cgv delle industrie nazionali risponde all’investimento in competenze in misura doppia rispetto all’investimento in macchine, e che le due componenti più connesse alla qualità del personale (il capitale organizzativo e la formazione) sono quelle più correlate con l’appropriazione del valore aggiunto lungo le Cgv. In sostanza, un adeguato investimento in competenze aziendali consente alle imprese non solo di agganciare il treno delle filiere globali, ma di collocarsi anche nei vagoni di testa (progettazione, controllo di gestione e altro) o di coda (marketing, distribuzione eccetera) dove di concentra l’appropriazione di valore aggiunto, e non solo nei vagoni di mezzo.
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