L’intelligenza della pancia
La nostra pancia è molto più socievole di quanto generalmente non si pensi, è altruista e pronta all’aiuto come dimostrano diversi studi, dagli esperimenti di Hamlin alle osservazioni condotte dal MIT di Boston
di Vittorio Pelligra
8' di lettura
Cosa pensa la “pancia del paese”? Quelle verità scomode e un po' buzzurre che molti di noi pensano ma di cui si vergognano. La pancia, per esempio, ci dice che gli immigrati sono diversi da noi. Un pensiero che il cervello, ben educato e rinforzato dal nostro senso morale, affinato da studi superiori e buone frequentazioni, ci spinge, nella maggior parte dei casi, a rimandare al mittente, in basso, da dove era venuto.
L’errata considerazione della pancia
Gli immigrati sono come noi, indipendentemente dal colore della loro pelle, dalla loro religione e dalla loro lingua. E che dire delle tasse? “Quelle si devono pagare”, dice il cervello. Ma la pancia invece la pensa diversamente. Le tasse sono troppe e lo Stato è inefficiente, per cui se si può evadere o, magari, anche solo eludere un pochino, perché non farlo? E i politici? Tutti uguali, disonesti e privilegiati. E i meridionali? Tutti lavativi malati di assistenzialismo. E i settentrionali? Tutti stakanovisti, individualisti e ignorantelli. L'Europa? Burocrati affamatori. La pensione? Prima viene meglio è, peccato per il sistema retributivo. Il debito pubblico? Quello lo pagherà qualcun altro. Balotelli? Non potrà mai essere veramente italiano. Liliana Segre con la scorta? Se l'è cercata, così impara. Pensieri che tutti abbiamo, che arrivano dalla pancia, dagli istinti più originari e, per questo, secondo alcuni più genuini, spontanei e onesti. E chi li reprime, in ossequio alle convenzioni sociali e al perbenismo, è un buonista, falso e ipocrita.
Questa è la pancia del paese, si dice, e chi riesce, senza vergogna, a sintonizzarsi con questi sentimenti, bassi, ma spontanei e diffusi, allora riesce a guadagnare consenso, popolarità e, alla fine, voti. Ma davvero questa è la pancia del Paese? Davvero questo è ciò che ognuno di noi pensa ma che viene stemperato, in molti casi, dal senso morale, dalle convenzioni sociali e dall'educazione? Davvero la nostra “pancia” ci porta ad esprimere istinti quasi animaleschi di repulsione verso gli altri, di egoismo intemperato, di insocievolezza ferina? No, le cose non stanno così.
Il circuito neurale
Gli istinti, la pancia, i gut-feelings godono ingiustamente di questa fama immeritata. Non siamo, per natura, quegli “homini lupus” di cui parlava Hobbes, né tantomeno quei farabutti che secondo Hume seguono le regole generali e sfruttano ogni eccezione a proprio vantaggio, e quel “legno storto dell'umanità” di cui ragionava Kant è in realtà un po' più dritto e nobile di quanto abbiamo creduto per secoli. La nostra pancia, se così possiamo dire, è molto più socievole di quanto generalmente non si pensi, è altruista e pronta all'aiuto. Le prove a sostegno di questa tesi sono molte e robuste. Partiamo dal nostro cervello. Esiste nella nostra testa un circuito neurale che viene definito “default network”.
Questo circuito è interessante perché è quello che si attiva quando non facciamo niente. Quando non svolgiamo un compito particolare, quando non ci stiamo concentrando su un pensiero o un ragionamento, quando non stiamo cercando di ricordare qualcosa o di compiere una particolare azione complessa. Ecco, la cosa interessante di questo network di default, è che esso è formato dalle stesse regioni del nostro cervello implicate nella cosiddetta cognizione sociale. Sono le stesse aree che usiamo per pensare e per avere a che fare con gli altri.
Per pensare ai loro pensieri, per adattare le nostre azioni a quelle degli altri, per collaborare, per lavorare in team, per compiere azioni complesse e coordinate e via dicendo. Il nostro “stato naturale”, se così possiamo chiamarlo, è quello della modalità “sociale”, quello che Daniel Dennett chiama “ atteggiamento intenzionale ”, quell'atteggiamento che promuove la comprensione e la connessione con gli altri, l'empatia e la collaborazione.
Le osservazioni della Hamlin
Fin da piccolissimi, poi, impariamo a distinguere istintivamente, ciò che è socialmente giusto da ciò che non lo è. Gli esperimenti di Kiley Hamlin, psicologa dello sviluppo dell'Università della British Columbia, mostrano che, già all'età di otto mesi, i bambini preferiscono le marionette che hanno visto aiutare altre marionette, a quelle che invece non hanno aiutato; non solo, ma gli stessi bambini hanno una propensione verso quelle marionette che hanno punito altre marionette perché non avevano aiutato altri quando avrebbero potuto farlo.
Non solo ci piacciono gli altruisti, ma ci piacciono anche quelli che non lo sono nei confronti degli egoisti. Questo meccanismo, evolutivamente parlando, si è dimostrato prezioso nel facilitare la nascita e la diffusione delle norme sociali di cooperazione. Il fatto che tali comportamenti si manifestino in età così precoce significa che non sono appresi durante il processo di socializzazione, ma che hanno una natura istintiva, sono appunto comportamenti “di pancia”.
In un altro esperimento classico, condotto su bambini di pochi anni di età, si presentavano ai partecipanti diversi modelli: in un caso un giocatore adulto, dopo aver vinto dei premi al bowling, destinava generosamente parte dei premi ai bambini poveri, mettendoli in un apposito contenitore. In un secondo caso un altro giocatore, dopo aver vinto, andava via con tutti i premi, ignorando il contenitore per i bambini poveri. Dopo aver assistito al comportamento dei diversi modelli, i bambini che giocavano allo stesso gioco e vincevano i loro premi si dimostravano più generosi se avevano osservato il primo modello e più egoisti se, invece, erano stati esposti al secondo.
Inoltre, quando a questi bambini veniva chiesto di insegnare il gioco ad altri partecipanti più piccoli, questi non si limitavano a descrivere la tecnica del gioco, ma insegnavano ai loro compagni più piccoli anche cosa fare dei premi vinti, in modo differente a seconda del modello a cui erano stati esposti.
Gli studi del MIT di Boston
Il nostro livello di altruismo o egoismo deriva, quindi, dalla nostra capacità innata di apprendere norme sociali in maniera automatica e dai modelli a cui siamo stati esposti. Un terzo indizio relativo al funzionamento della nostra “pancia” arriva da una serie di studi condotti da David Rand, direttore dello Human Cooperation Laboratory del MIT di Boston. In questi studi Rand e i suoi collaboratori utilizzano una serie di giochi economici nei quali viene simulato il processo di produzione di un bene pubblico; processi che simulano una scelta simile a quella che facciamo quando decidiamo se differenziare i rifiuti, pagare le tasse, non tradire la fiducia che è stata riposta in noi, rispettare l'ambiente, solo per fare alcuni esempi. In tutti questi casi, ognuno di noi sarebbe più contento se tutti facessero la loro parte, ma siccome, se tutti facessero la loro parte, individualmente avremmo un incentivo a non fare la nostra – tanto ci sono gli altri – allora nessuno farà quanto deve e il bene pubblico non sarà prodotto.
Questo prevede la teoria. Per fortuna noi siamo meglio di così, e molti contribuiscono alla produzione del bene pubblico più di quanto non preveda la teoria. Ma la cosa veramente interessante – e qui sta la scoperta di Rand – è che la probabilità di contribuire e l'ammontare contribuito è inversamente proporzionale al tempo impiegato per decidere. Più è veloce la decisione, maggiore è la probabilità che questa sia una decisione cooperativa. Gli egoisti e i free-rider, in media impiegano più tempo a decidere. Ciò significa che la cooperazione è la scelta “di pancia”, immediata e automatica, mentre l'egoismo individualista è ciò che scaturisce da una scelta più ragionata e meditata.
L’influenza delle norme sociali
I comportamenti che producono, nel lungo periodo e collettivamente, un miglioramento delle condizioni delle comunità che li adottano, sono stati codificati, nella nostra storia culturale, sotto forma di norme sociali. Gli antropologi ci spiegano che il sentimento della vergogna nasce spesso dalla consapevolezza di aver violato una di queste norme.
Ci vergogniamo perché sappiamo che avremmo dovuto seguire una certa regola e non lo abbiamo fatto e questo rappresenta un danno per la nostra comunità o il nostro gruppo. Ma soprattutto ci vergogniamo e ci mostriamo contriti per segnalare agli altri membri del nostro gruppo che abbiamo capito di aver sbagliato e per questo chiediamo clemenza.
Ecco perché il successo e il benessere di una comunità dipendono in maniera cruciale dalla qualità del pacchetto di norme sociali di cui ha scelto di dotarsi. Tanto maggiore è l'efficacia di queste norme nel promuovere la cooperazione, tanto migliori saranno i risultati che il gruppo saprà ottenere. Ma le norme cambiano, e comportamenti che un tempo ci avrebbero fatto vergognare, oggi ci lasciano indifferenti, quando non addirittura orgogliosi. Qualche giorno fa ad Alessandria, una signora di una certa età, si è rifiutata di liberare dalla sua busta della spesa un sedile dell'autobus sul quale cercava di sedersi una bambina di sette anni, perché questa bambina era di colore.
Qualche giorno prima a Liliana Segre, una signora di ottantanove anni, scampata allo sterminio nei lager tedeschi, senatrice a vita per i suoi meriti nei confronti della Repubblica Italiana, ere stata assegnata la scorta a causa delle minacce, serie e ripetute, a sfondo razziale. Negli stessi giorni a Desio, durante una partita di calcio della categoria “pulcini”, una mamma ha ritenuto opportuno urlare contro un piccolo calciatore della squadra avversaria “negro di…”. Stesso insulto a Milano, rivolto a un giocatore tredicenne, durante una partita di basket. Scena simile a Pozzuoli; questa volta è un altro giocatore ad apostrofare in quel modo un avversario dalla pelle scura. E nessuno si vergogna più.
La risposta fornita dagli esperimenti
Anzi sembra che ci sia un clima di giustificazione sociale, in un profluvio di distinguo, sdrammatizzazioni, annacquamenti. Com'è possibile che una signora di una certa età, in un bus cittadino affollato di gente, non si vergogni di maltrattare una bambina di sette anni per via del colore della sua pelle? La risposta è lì, in quegli esperimenti: imitiamo le figure autorevoli e seguiamo le norme sociali, quindi se queste norme cambiano o abbiamo l'impressione che siano cambiate, cambierà con tutta probabilità anche il nostro comportamento. Ma non è una questione “di pancia”, tutt'altro. Sono scelte pensate, ragionate, apprese. Non diamo la colpa al malcontento, all'esasperazione, all'ignoranza. Non sono quelle le cause.
La causa sta in un nuovo “frame”, un nuovo racconto plausibile, ma falso, che ci parla di nemici, di invasioni, di sostituzione etnica, di complotti della finanza turbocapitalista, di differenze irriconciliabili di razza e religione, di nazionalismi, muri e confini. Un racconto che cerca di sdoganare conflitti sociali e odio, chiusura ed esclusione, come nuove regole della convivenza, come nuove norme condivise.
Ma ancora una volta, non sono questi i sentimenti “di pancia”; queste sono costruzioni ben articolate, pensate, elaborate, e progettate per aumentarne presa ed efficacia. In questo modo si modifica il pacchetto di norme sociali che governa la nostra vita in comune, si sdogana un certo linguaggio, cambiano le parole e con le parole i significati e, in questo modo, anche le cose di cui vergognarsi e di cui andare fieri, e in ultimo, i nostri comportamenti.
In certi paesi e in certe regioni si apprezza la cucina piccante nonostante il peperoncino bruci la lingua e la gola, perché apprezzare quel gusto ha reso più semplice l'utilizzo di una spezia che, soprattutto a certe latitudini, proteggeva la carne dall'andare a male. Il cambiamento culturale ha rinforzato la specie. L'apertura all'altro, la fiducia, la reciprocità sono come un peperoncino sociale. Rendono più sane e prospere le nostre comunità, anche se a volte, ci costano un po'.
Ma così come la carne senza il peperoncino si guasta prima, le nostre comunità senza altruismo e norme cooperative, rischiano di disgregarsi e assomigliare sempre più ad uno stato di natura hobbesiano, dove regnano i lupi e la vita è solitaria, povera e triste. Viviamo certamente un'involuzione dei costumi, ma non diamone la colpa alla “pancia”, che per centinaia di migliaia di anni ci ha insegnato ad essere socievoli e cooperativi. Le responsabilità stanno altrove, cerchiamole la.
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