L’istituto Rom sul «prezzo della sposa» è riduzione in schiavitù
La cessione della propria figlia al patriarca della famiglia a cui appartiene il promesso sposo non rientra nella costrizione al matrimonio prevista dal Codice rosso, ma nell’articolo 600 del Codice penale
di Patrizia Maciocchi
2' di lettura
La cessione della propria figlia al patriarca della famiglia a cui appartiene il promesso sposo, non rientra nel reato di costrizione al matrimonio, previsto dal Codice rosso, ma è riduzione in schiavitù. Nel mirino della Cassazione (sentenza 30538) finisce il cosiddetto istituto del «prezzo della sposa». Una sorta di indennizzo o “dote” che la famiglia della sposa riceve per essersi privata di un suo componente e a garanzia dell’agiatezza della famiglia del marito. Non il corrispettivo di una compravendita dunque - sottolinea la difesa del padre della ragazza che aveva meno di 16 anni - ma un antico e consolidato istituto giuridico Rom. Per la Cassazione è invece la prova della “reificazione” della minorenne trattata come una cosa, di cui si dispone sulla base di un diritto pari a quello dominicale. Atteggiamento che basterebbe a far scattare il reato di riduzione in schiavitù, anche senza il pagamento di un corrispettivo, per il passaggio di mano della ragazza destinata al sì: l’esistenza di un guadagno è solo un evidente sintomo dello sfruttamento.
Il Codice rosso
Non passa la richiesta della difesa di applicare il più favorevole articolo 558-bis del Codice penale, sul reato di “Costrizione o induzione al matrimonio”, introdotto dalla legge 69/2019 con il cosiddetto Codice rosso. Per la Suprema corte, infatti, i fatti tipizzati dalle due norme incriminatrici non hanno elementi di contatto. La violenza e la minaccia, ad esempio richiesti dal Codice rosso, non sono tratti costitutivi della riduzione in schiavitù che è configurabile persino quando il soggetto passivo non è consapevole. Né del resto - sottolineano i giudici di legittimità - «prima dell’avvento dell’articolo 558-bis nel Codice penale è mai stato ipotizzato che “il matrimonio forzato e/o precoce” (sintetizzando quella che in realtà è la più composita tipologia di fatti ora incriminati dalla disposizione citata) integrasse di per sé il reato di cui all’articolo 600 comma 1 del Codice penale, ritenuto nel caso di specie».
Relativismo muliculturale o assimilazionismo?
Inutile, infine, anche il tentativo di giocarsi la carta del relativismo culturale, e del condizionamento che questo esercita nelle azioni di chi è convinto, non di trasgredire le regole del paese in cui vive, ma di rispettare le proprie. La Suprema corte coglie l’occasione per parlarne. E chiarisce che si è trovato un punto di caduta tra posizioni più decisamente “assimilazioniste” che rivendicano l’incondizionata preminenza delle norme dello Stato di permanenza e quelle che aprono, appunto, al relativismo multiculturale che dà spazio alle specificità alle tradizioni, religioni ecc. seguite ad altre latitudini. Il limite è il rispetto dei diritti umani fondamentali dettati dalla Costituzione e dalle norme violate. la protezione del diritto alla diversità e a restare fedeli alle regole sociali del proprio gruppo identitario, non può essere invocata per violare diritti umani e libertà fondamentali consacrati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo o garantiti a livello sovranazionale.
In astratto una situazione di sub cultura può pesare sul riconoscimento di attenuanti generiche. Nel caso esaminato il padre dimostrava anche un certo grado di integrazione in Italia, dove usufruiva di un alloggio popolare e di un sostegno economico dei servizi sociali.
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