L’Italia al bivio del digitale: ultima chiamata per il futuro del Paese
In ogni campo in cui è entrato il digitale ha ridotto i costi e abbassato le barriere all’accesso, disintermediando un processo che di solito vedeva solo alcuni soggetti specifici come erogatori di servizi, mentre ora sono entrati in gioco attori nuovi, anche perché i contorni dei settori sono diventati meno netti
di Francesco Caio e Pierangelo Soldavini
4' di lettura
In ogni campo in cui è entrato il digitale ha ridotto i costi e abbassato le barriere all’accesso, disintermediando un processo che di solito vedeva solo alcuni soggetti specifici come erogatori di servizi, mentre ora sono entrati in gioco attori nuovi, anche perché i contorni dei settori sono diventati meno netti. Ovunque il cambiamento ha assunto ritmi sempre più serrati. Come se il profilo di accelerazione esponenziale della potenza di calcolo dei microprocessori, regolata dalla legge di Moore che ne predice il raddoppio ogni 18 mesi, si fosse esteso dai semiconduttori alle dinamiche dei cicli di mercato, delle imprese, delle persone e delle loro convinzioni, fino a quelle della politica. Come in tutte le epoche, anche quella della digitalizzazione, o del tempo accelerato, ha le sue icone, i suoi stenogrammmi interpretativi che a loro volta si susseguono sul podio della fama in grande rapidità.
Abbiamo avuto Bill Gates, Steve Jobs, poi Jeff Bezos e Mark Zuckerberg, oggi Elon Musk. Persone che in poco tempo costruiscono posizioni dominanti in mercati che prima non esistevano, ripercorrendo ognuno – nei loro settori di attività – la parabola dei grandi gruppi che segnarono lo sviluppo della fase industriale del Novecento americano: i Rockefeller, i Ford, i Mellon. Ma questa volta – con il digitale che si va costruendo in pochi anni – i grandi gruppi proprio grazie all’innovazione hanno rivoluzionato il paradigma di interi settori industriali e di servizio.
Prendiamo Musk. Oggi la sua Tesla è di gran lunga la casa automobilistica a maggior capitalizzazione al mondo, superando gruppi storici e consolidati: con una visione guidata dalla volontà di anticipare gli utili futuri di un’azienda innovativa, ma dalla redditività ancora incerta, la finanza rischia di avere una prospettiva molto distorta. Ma tant’è: il dato di fatto è che la Tesla è diventata in pochi anni il riferimento di un settore industriale che andava verso il consolidamento e l’aggregazione tra produttori. Musk ha fatto lo stesso in ogni settore in cui è entrato, pur tra mille polemiche per il suo atteggiamento arrogante ed eccentrico. Nello spazio ha innovato con l’idea di riutilizzo dei razzi vettori che ha conquistato anche la Nasa. Con PayPal ha trasformato il modo di pagare. I suoi treni sottovuoto di Hyperloop si candidano come soluzione alternativa per la mobilità globale. Ora promette innovazione anche con la sua intelligenza artificiale e con le applicazioni innovative delle neuroscienze. Giunto a cinquant’anni, l’eterno ragazzo, al netto dei suoi eccessi che riportano all’idea del “padrone delle ferriere” come nella riorganizzazione di Twitter, dimostra di essere un maestro nel comunicare innovazioni di indubbio valore che devono però ancora mantenere le promesse. Ma allo stesso tempo è entrato da protagonista in comparti industriali in cui sembrava impossibile l’ingresso di attori nuovi, per di più senza alcuna esperienza. (...)
Abbiamo visto come il digitale abbia bisogno di un design di lungo termine, di una visione lungimirante, di una politica industriale che sappia guardare lontano. Come debba avere obiettivi prospettici, ma anche tappe intermedie chiare e raggiungibili: si tratta di creare le condizioni per lo sviluppo con infrastrutture adeguate. (...)
Governare la tecnologia piuttosto che farsi governare e subirla: è questo il salto di qualità necessario per la società intera.
In questo senso l’Europa, troppo spesso tacciata di essere lenta e burocratica rispetto alla rapidità e al pragmatismo di Stati Uniti e Cina, ha comunque il merito di fornire un quadro regolamentare chiaro per evitare che la tecnologia la faccia troppo da padrone. È successo così con il Gdpr, l’insieme di regole, fin troppo macchinose, che punta a proteggere i diritti dell’individuo dall’invasività senza limiti di Big Tech, accusato di essere un freno eccessivo allo sviluppo, ma poi rivalutato come modello illuminante di protezione di fronte a uno scandalo come quello di Cambridge Analytica, in cui dati di milioni di persone sono stati utilizzati in maniera surrettizia per condizionare le loro opinioni e le loro scelte elettorali, ai limiti della manipolazione delle coscienze.
Allo stesso modo ora Bruxelles ha messo in campo un processo di definizione di una cornice regolamentare che fissi dei paletti a difesa degli individui di fronte all’evoluzione indiscriminata dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi che ne sono alla base. Proprio perché la tecnologia deve mettere al centro la persona, fornendo anche le tutele e i meccanismi di consapevolezza necessari.
In queste pagine abbiamo sottolineato che la digitalizzazione non è un processo lineare, ma che ha bisogno di una visione e una programmazione che si irradia su più livelli. La trasformazione digitale ha carattere pervasivo e trasversale, coinvolgendo tutti i settori. Si vede chiaramente anche nella struttura del Piano nazionale di ripresa e resilienza, l’architettura dell’azione di supporto dell’economia italiana in vista dei fondi del Next Generation Eu. Difficile immaginare di poter realizzare gli obiettivi delle missioni legate alla transizione ecologica, al sistema sanitario, alla mobilità, all’istruzione e alla cultura, all’equità sociale e all’inclusione, prescindendo dagli strumenti digitali. Si tratta di realizzare una trasformazione dell’economia nel suo complesso. L’infrastruttura di rete che abilita una connessione rapida ed efficiente per tutte le famiglie e tutti i territori è solo la precondizione necessaria. Sulla quale bisogna costruire una cultura che permetta una trasformazione radicale dei processi in tutti gli ambiti, una cultura fatta di una nuova alfabetizzazione di massa, di competenze adeguate, di una formazione continua nel corso della vita lavorativa, di una Pubblica amministrazione liberata dalla burocrazia, da una semplificazione delle autorizzazioni e della giustizia, di una sicurezza del sistema che parte dall’alto, di un nuovo modo di lavorare e di collaborare in maniera meno gerarchica.
Una cultura che si trasformi anche in consapevolezza delle conseguenze della tecnologia e delle proprie azioni, che permetta a ciascuno di sapersi tutelare dagli eccessi e dalla pervasività di una tecnologia che per sua natura è totalizzante, in grado di impossessarsi dei molteplici aspetti della vita personale. E che si trasformi in capacità di padroneggiare i rischi di controllo e di manipolazione delle coscienze che sono frutto delle spinte costanti di un uso distorto e improntato al business della tecnologia.
I fondi in arrivo dall’Europa rappresentano davvero l’ultima chiamata per il futuro. Perché l’Italia inverta la sua prospettiva e riesca a trasformare il suo potenziale di crescita sostenibile in una concreta prospettiva di sviluppo, inclusione e benessere per le nuove generazioni.
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