L’italia e il sistema elettorale di Penelope
In Italia e regole elettorali cambiano in base agli interessi contingenti della maggioranza di turno. Non c’è Paese democratico consolidato che abbia conosciuto un’esperienza simile
di Sergio Fabbrini
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Il comunicato stampa (reso pubblico giovedì 16 gennaio) è inequivoco: «la Corte costituzionale fa sapere…che la richiesta è stata dichiarata inammissibile». La proposta di referendum popolare avanzata da otto Consigli regionali (a maggioranza leghista), per abolire la parte proporzionale dell’attuale sistema elettorale, è stata considerata incostituzionale. È da più di trent’anni che la politica italiana, come Penelope, fa un sistema elettorale di giorno (e cerca di disfarlo di notte).
Ciò è dovuto al fatto che le regole elettorali cambiano in base agli interessi contingenti della maggioranza di turno. Non c’è Paese democratico consolidato che abbia conosciuto un’esperienza simile. La sconfitta referendaria della riforma costituzionale del 4 dicembre 2016 ha reso ancora più imprevedibile il funzionamento della nostra democrazia. Un’imprevedibilità che non consente di dare continuità all’azione di riforma, continuità che sarebbe necessaria per risolvere i problemi del Paese. Naturalmente, non tutto dipende dal sistema elettorale, tuttavia quest’ultimo (combinato con il sistema di partito) contribuisce non poco a fare la differenza. Vediamo perché.
Giovanni Sartori ha spiegato a generazioni di studenti e lettori che il sistema elettorale è uno strumento che può essere utilizzato per raggiungere obiettivi diversi. Il sistema proporzionale favorisce la rappresentanza, quello maggioritario la governabilità. Il primo tende a riflettere le preferenze degli elettori, il secondo ad aggregarle intorno ad opzioni di governo.
L’attuale maggioranza politica ha concordato un progetto di sistema elettorale proporzionale (chiamato impropriamente “Germanicum”), giustificandolo con l’argomento che in Italia non vi siano le condizioni dell’alternanza al governo. Per quella maggioranza, siamo ritornati al secondo dopoguerra, quando il sistema elettorale era proporzionalistico per disaggregare il voto degli elettori, così impedendo alla sinistra comunista di conquistarne la maggioranza.
Quest’ultima, infatti, si riconosceva in uno schieramento geo-politico alternativo a quello a cui l’Italia apparteneva. Con il risultato che, se avesse conquistato il potere di governo, l’avrebbe utilizzato per mettere in discussione l’identità occidentale del Paese (con le sue conseguenze interne). Con la fine della Guerra Fredda il nostro contesto politico si era normalizzato, consentendo una (seppure sofferta) competizione maggioritaria tra i due poli di sinistra e destra.
Oggi, il ritorno al proporzionalismo è giustificato di nuovo con ragioni legate alla politica estera. Il sovranismo antieuropeista del maggiore partito della destra (la Lega), insieme al nazionalismo radicale del suo maggiore alleato (Fratelli d’Italia), potrebbero costituire, una volta al governo, una minaccia all’identità europea dell’Italia (e soprattutto alla sua partecipazione all’Eurozona). I sovranisti/nazionalisti di oggi costituiscono dunque l’equivalente funzionale dei comunisti di ieri. Con la differenza, per di più, che i primi (contrariamente ai secondi) non dispongono di una cultura politica (e di un network intellettuale) che sappia legittimarne il carattere anti-sistemico.
Tuttavia, se è evidente la minaccia sistemica rappresentata da una destra collocata su posizioni antieuropeiste, è anche evidente la necessità del Paese di disporre di una capacità di governo. Tale capacità di governo non può essere garantita dal ritorno al sistema proporzionale (seppure con una soglia del 5 per cento), proprio perché si è in presenza di un sistema partitico altamente frammentato. Il sistema proporzionale proposto dall’attuale maggioranza è destinato a riflettere quella frammentazione, non certo a ridurla ai fini di governo.
È singolare che i principali leader di quella maggioranza (a cominciare dal capo politico dei Cinque Stelle) esaltino le virtù rappresentative del sistema proporzionale, dimenticando di rilevare che le elezioni servono anche per dare vita ad un governo. Un governo stabile abbastanza per poter agire nei sistemi dell’interdipendenza europea e globale. Seppure l’attuale maggioranza si dichiari europeista, la sua proposta elettorale ha una giustificazione interamente domestica (basti pensare che, nel recente seminario del Pd tenutosi qualche giorno fa all’Abbazia di Contigliano, il rapporto dell’Italia con l'Europa non figurava in nessun punto dell’ordine del giorno).
L’attuale maggioranza sostiene che vuole contenere il sovranismo dei rivali, in realtà vuole anche preservare gli interessi particolari dei partiti che la costituiscono. Eppure, non mancherebbero soluzioni accettabili della nostra equazione elettorale, capaci cioè di garantire rappresentanza e governabilità nello stesso tempo. Come ha spiegato più volte su questo giornale Roberto D’Alimonte, vi sono sistemi elettorali misti, a doppio turno di lista, che ci avvicinerebbero a quella soluzione, come è avvenuto (con successo) nei nostri comuni e regioni a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Perché non adottarli anche a livello nazionale?
Se la maggioranza politica (qualunque essa sia) continuerà a pensare alle regole come una variabile dipendente dei propri interessi contingenti, allora il dilemma italiano continuerà a rimanere irrisolto.
Poiché il sistema dei partiti è soggetto ad una continua trasformazione, ne consegue che ci sarà una pressione continua a adattare il sistema elettorale agli esiti (contingenti) di quella trasformazione. Ma una democrazia non può funzionare nell’incertezza delle sue regole elettorali, in particolare se è collocata in sistemi ad alta interdipendenza. Naturalmente, aiuterebbe se l’opposizione si liberasse dal proprio sovranismo e la maggioranza dalla sua attrazione per il passato. E soprattutto se tutti i partiti smettessero di usare le regole per le loro convenienze, dichiarandosi proporzionalisti di giorno e maggioritari di notte.
Occorrerebbe rovesciare la prospettiva, partendo dagli interessi dell’Italia e non già da quelli dei partiti, per risolvere il nostro dilemma. Nel romanzo di Rudolf Erich Raspe, il barone Karl von Münchhausen riuscì a liberarsi dalle sabbie mobili in cui si era infilato tirandosi per i capelli. Quanti capelli sono rimasti sulla testa della politica italiana?
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