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L’Italia porti all’Onu i valori dell’impresa

di Andrea Goldstein

(Reuters)

4' di lettura

Il Palazzo di Vetro sembra veramente lontano da uffici, fabbriche, call center o piantagioni dove si produce il Pil mondiale. Magari partecipare all’Assemblea generale dell’Onu (la cui 72° sessione si apre oggi) soddisfa l’ego di qualche capo azienda in cerca di visibilità internazionale, ma certo piccoli e medi imprenditori che “tirano la carretta” della globalizzazione hanno ben altro da fare che sapere cosa ne pensa Miroslav Lajcák, presidente di Unga72 (72° sessione dell’United Nations General Assembly), sul tema di quest’anno: «Focus sulle persone: l’impegno per la pace e per una vita dignitosa per tutti in un mondo sostenibile».

Sarebbe un errore crederlo, perché le discussioni newyorkesi sulla global governance servono a costruire consenso politico e il mandato per negoziati che magari dureranno anni (e spesso si tengono altrove, in particolare all’Ocse), ma che un giorno potrebbero diventare poi trattati, convenzioni, leggi, linee guida e standard che la business community deve rispettare sul campo. Altrettanto ingenuo sarebbe considerare questo complesso di regole come la prova che politici e funzionari internazionali non hanno di meglio da fare che rendere più complicata la vita degli imprenditori. La globalizzazione in cui ormai tutte le imprese italiane sono immerse, indipendentemente da dimensione e specifico settore d’attività, ha bisogno di regole condivise per funzionare. Servono a difendere i “pesci” più piccoli che altrimenti sarebbero vittime dei pescecani del Big Business, magari cinesi, così come a legittimare il capitalismo di fronte a un’opinione pubblica che teme che essa perpetui e moltiplichi abusi (su lavoratori, consumatori e sull’ambiente) e diseguaglianze. Partecipare alla definizione di queste regole è allora fondamentale per le imprese, e un buon punto di partenza è sapere quali sono le problematiche sul tavolo dell’Assemblea generale dell’Onu (oltre ovviamente ai temi più squisitamente politici dettati dalla congiuntura internazionale).

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Dal 2015, a livello globale molto ruota intorno ai Sustainable development goals (Sdg), che fissano una complessa architettura di obiettivi intorno a cui catalizzare gli sforzi della comunità internazionale nelle sue varie accezioni – governi, imprese, società civile, cittadinanza in senso lato. Gli Sdg hanno sostituito i Millennium development goals (Mdg), rivelatisi molto utili nel 2000-15 per lottare contro la povertà nei Paesi meno ricchi, e ne differiscono in tre dimensioni fondamentali: guardano allo sviluppo sostenibile, considerano indicatori di benessere complementari rispetto al reddito e – elemento cruciale per un Paese ricco come l’Italia – si applicano universalmente. Gli Sdg sono 17, gli obiettivi operativi 169, e comprono ambiti come istruzione e formazione, ambiente, sviluppo sociale, commercio, genere.

Il Segretario generale ha recentemente diffuso la relazione sullo stato di avanzamento dell’Agenda 2030. Parecchie delle considerazioni e preoccupazioni di António Guterres chiamano in causa direttamente o indirettamente le imprese: scarsa partecipazione femminile nei ruoli apicali, insufficiente progresso nel migliorare l’efficienza energetica e diminuire l’intensità nell’uso delle risorse naturali (la cosiddetta domestic material consumption), decelerazione della produttività del lavoro, costo esorbitante dei trasferimenti bancari dei migranti, prevalenza dei Neet (Not in education, employment or training, ovvero chi non studia né lavora, né fa corsi di formazione) tra i giovani.

A ciascuna corrisponde in teoria una misura di policy, già applicata almeno in qualche Paese e potenzialmente estendibile a tutti: per esempio quote di genere, tassazione differenziale, limiti alle commissioni sulle rimesse. In un mondo di catene globali di produzione, rimane poi sempre sullo sfondo la problematica del “lavoro decente” e della responsabilità del produttore finale, quasi sempre occidentale, a garantire per i propri fornitori: quest’anno California e Francia sono tra le giurisdizioni che hanno imposto obblighi di disclosure molto più vincolanti di quelli italiani. Alla stessa stregua, difficile dimenticare che gli incessanti riferimenti che emergono dai vari summit globali alla mobilizzazione di tutte le risorse, domestiche e internazionali, per sostenere lo sviluppo equivalgono a esprimere fastidio verso pratiche fiscali dannose e inique.

Anche se i tempi della storia sono più lunghi di 12 mesi, da settembre 2016 molto è cambiato sulla scena internazionale e questo non potrà che influenzare Unga72. Certo, alcune forze di moderazione sono apparse (Emmanuel Macron) o si sono rafforzate (Angela Merkel, Mauricio Macri, che nel 2018 presiederà il G20). Ma in compenso si moltiplicano democrazie illiberali (Recep Tayyip Erdogan, Viktor Orban) o autoritarie (Vladimir Putin, Nicolas Maduro) e poujadismo (Donald Trump), tutti leader uniti nel criticare l’internazionalismo liberale. Il (legittimissimo) tentativo cinese di usare la Belt and road initiative per imporre regole meno vincolanti in tema di aiuto allo sviluppo è un’altra dimostrazione che stiamo vivendo una cesura importante nel sistema di governance globale nato dopo la Guerra e che ha permesso alle nostre imprese di prosperare.

Quest’anno l’Italia si presenta sull’East River in una veste inusuale, da presidente in esercizio del G7 (cioè, forzando un po’ la mano, da leader del mondo libero) e da membro non permanente del Consiglio di sicurezza. Una visibilità che va sfruttata, e sicuramente Paolo Gentiloni saprà farlo, per rivendicare i molti atout della via italiana alla globalizzazione, a dispetto di ombre che non possono essere celate (dalla disoccupazione giovanile al caporalato e al gender bias nelle posizioni di potere). Siamo un Paese aperto, anche grazie alle imprese e al loro senso quasi innato di responsabilità sociale, cerchiamo di rimanerlo.

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