Eccellenze italiane

L’olio extravergine italiano copre il 40% dei consumi. Pochi fondi per la filiera

Se ne producono circa 250mila tonnellate, mentre i consumi interni sono oltre 600mila e la domanda estera è di altre 400mila

di Giorgio dell'Orefice

L’Italia produce meno della metà delle olive richieste dai produttori

4' di lettura

Un cucchiaio di extravergine made in Italy per ogni italiano. All’anno, non al giorno. A tanto ammonta (circa 30 grammi) la disponibilità pro capite di olio extravergine d’oliva italiano suddiviso per la popolazione italiana. Al 30 aprile scorso, secondo i numeri di Frantoio Italia, la banca dati sull’olio d’oliva gestita dall’Ispettorato per il controllo della Qualità del Mipaaf, in giacenza in Italia c’erano in tutto 346mila tonnellate di cui 122mila di extravergine 100% italiano. Un volume lontano anni luce dai consumi italiani (circa 600mila tonnellate l’anno, 11,9 chilogrammi pro capite), e ancora di più dal reale fabbisogno nazionale (oltre un milione di tonnellate) che comprende anche le circa 400mila l’anno che vengono esportate.

Il calcolo è stato effettuato da Assitol, l’associazione delle industrie olearie italiane per smentire le tante fake news e le inchieste improvvisate che da decenni si occupano del settore quasi sempre mettendo all’indice origine e qualità dell’olio.

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Offerta in continuo calo

Il punto chiave è uno: olio extravergine d’oliva italiano non ce n’è. La produzione del Belpaese di olio d’oliva “di pressione” – come si dice in gergo – negli ultimi anni si è assestata secondo Ismea attorno alle 250mila tonnellate. Per trovare una produzione in grado di soddisfare almeno i consumi interni (e comunque non l’export) bisogna risalire alla fine degli anni '90 quando si dichiaravano oltre 700mila tonnellate di prodotto. Numeri sui quali, già allora, non erano pochi a nutrire dubbi.

Di fatto, mentre negli anni si discuteva in maniera accesa sulla reale entità dei raccolti, la produzione italiana scendeva sempre più giù. E se in passato era necessario acquistare olio all’estero (Spagna in primo luogo ma anche Grecia e Tunisia) solo per riesportarlo in blend con extravergine italiano, adesso, non si intravede come se ne possa fare a meno anche per i consumi interni. Di certo a puntare solo sull’olio italiano sarebbe sfumato anche l’incremento del 9% dei consumi di extravergine registrato nell’anno della pandemia.

Gli attacchi all’industria olearia

Ma nonostante questi numeri ormai conclamati, chissà perché si continua a puntare il dito contro industria e commercio, accusati quasi di tenere nascosto l’extravergine italiano per mettere in bella mostra sugli scaffali confezioni che all’interno delle bottiglie etichettate con brand italiani, contengono quasi esclusivamente olio di provenienza estera. Chissà perché si continua ad alimentare la fake news che il problema del settore olivicolo made in Italy non sia la produzione ma la trasformazione e il commercio.

«Il deficit produttivo di cui soffre l’olio italiano – ha spiegato la presidente del Gruppo Oliva di Assitol, Anna Cane – è ormai un dato di fatto. Ce lo indicano chiaramente le rilevazioni, per giunta da fonti ufficiali. Salta agli occhi che, purtroppo, di olio extravergine di origine italiana non solo non ce n’è per tutti, ma ce ne è davvero per pochi». Eppure negli ultimi anni, proprio per recuperare il buco produttivo e insieme con gli olivicoltori, è stato messo in piedi un ambizioso Piano olivicolo. Un piano che in realtà non è andato oltre qualche iniziativa di ricostituzione del patrimonio di uliveti distrutti dalla Xylella in Puglia e del quale con la pandemia si sono perse le tracce (si veda altro articolo in pagina).

Ciò che invece non manca mai al settore dell’olio d’oliva sono gli attacchi. L’ultimo appena qualche settimana fa da sedicenti paladini dei consumatori che hanno messo in discussione origine e caratteristiche organolettiche di diverse bottiglie di brand italiani prelevate sugli scaffali della grande distribuzione. L’indagine si concludeva – come avviene spesso – con la raccomandazione ad acquistare solo il pochissimo olio made in Italy.

«Il consumatore per mettere in tavola l’extra vergine tutti i giorni – conclude Anna Cane – ci chiede un rapporto qualità-prezzo equilibrato. Come si concilia questa richiesta con l’idea, spesso veicolata in ambito agricolo, che solo l’olio più costoso garantisce davvero il consumatore? L’Italia, non dimentichiamolo, controlla i suoi prodotti alimentari grazie all’impegno di ben otto organismi pubblici. La qualità non è in discussione. Il punto è lavorare in modo più efficiente per contenere i costi e aumentare la competitività sul mercato, oltre che offrire maggiori possibilità di remunerazione ai produttori, in un’ottica di sostenibilità economica». Sullo sfondo resta l’anomalia tutta italiana di difensori dei consumatori che raccomandano i prodotti col prezzo più elevato.

Solo 9 milioni per il rilancio

Dopo discussioni durate decenni, nel corso dei quali si favoleggiava dei piani olivicoli realizzati dalla Spagna a partire dall’ingresso nella Ue nel 1996 in virtù dei quali Madrid ha surclassato Roma (attualmente la Spagna produce 1,2-1,3 milioni di tonnellate di olio l’anno), la montagna ha partorito il classico topolino.

Ben due piani strategici nazionali (nel 2010 e nel 2016) e un piano d’azione Ue (nel 2012) tutti dedicati all'olivicoltura rimasti prevalentemente lettera morta sono forse la plastica rappresentazione delle difficoltà in Italia di tradurre i propositi in realtà. Di fatto la produzione italiana fa ormai segnare ogni anno un nuovo minimo storico.

La sproporzione tra obiettivi annunciati e risorse investite è nel piano di settore olivicolo-oleario del 2016 convertito con la legge di conversione 2 luglio 2015 n. 91, e che doveva rappresentare la versione riveduta e corretta del piano del 2010. «Il Piano del 2016 – ricostruiscono all’associazione di produttori di olio Italia Olivicola – disponeva di una propria autonoma dotazione finanziaria di 32 milioni di euro, di cui 4 per l’anno 2015 e 14 ciascuno per i due anni successivi. Risorse che avrebbero dovuto migliorare molti aspetti, dalla commercializzazione alla promozione e che per il tema clou, ovvero quello del rafforzamento dell’offerta, stanziava però solo 9 milioni».

A questo punto non resta che confidare in una razionale applicazione della riforma della Pac 2023-2027 che offre l’irripetibile occasione alle istituzioni nazionali di programmare in maniera strategica ed unitaria gli interventi settoriali, utilizzando contemporaneamente le diverse leve disponibili, come i pagamenti diretti, le misure settoriali (Ocm olio) e le politiche i sviluppo rurale.

«Purtroppo – ha commentato il presidente di Italia Olivicola, Fabrizio Pini – possiamo tranquillamente affermare che il nostro Paese non abbia mai potuto godere di un vero Piano olivicolo. E gli interventi solo annunciati ma poco concreti hanno avuto l’effetto di far perdere ancora valore e competitività all’olivicoltura italiana. Un passo importante sarebbe ora quello di coinvolgere la filiera nei progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza per costruire un percorso organico di rilancio strutturale dell’olivicoltura, ed evitare così interventi spot che non portano alcun beneficio a tutto il sistema».

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