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L'ora africana: perché black culture e moda innovativa parlano una sola lingua

Da Adama Ndiaye, la fondatrice senegalese del marchio Adama Paris, al sudafricano Thebe Magugu: i nomi che stanno ridefinendo il panorama dello stile internazionale.

di Liam Freeman

Foto di Bettina Pittaluga. Styling di Wilow Diallo

4' di lettura

All'alba, a Canchungo, la luce si diffonde leggera sulla terra rossa e sugli edifici intonacati di blu. Wilow Diallo è capitato qui in questo villaggio della costa di Cacheu, in Guinea-Bissau, per caso. Portava con sé materiale destinato alle scuole. Oltre che dai colori vivaci, è rimasto incantato dallo stile dei suoi abitanti e dall'usanza di raccogliersi tutti assieme, non importa a quale generazione si appartenga, sotto gli alberi di morinda. Lo scenario ideale per fotografare una storia di «talento, innovazione e prospettiva dei creativi afro, gli stessi che stanno ridefinendo il panorama della moda internazionale». L'Africa conta una popolazione di oltre 1,4 miliardi di persone, diverse migliaia di comunità e oltre 2mila lingue: i confini che delimitano i suoi 54 Stati contengono a fatica le sue moltitudini. «Il bello della moda africana è che varia quanto le realtà da cui nasce», dice Christine Checinska, curatrice della mostra Africa Fashion, passata dal V&A di Londra al Brooklyn Museum (fino al 22 ottobre). «Parliamo di un dizionario estetico decisamente ampio: gli africani apprezzano le abilità richieste per cucire un capo, realizzare una stampa, tessere un tessuto; considerazioni che nel Nord del mondo si sono invece perse. E poi c'è una chiara questione di potere collettivo: chi è già avanti è pronto a trascinare gli altri nel proprio viaggio verso il successo. Nessuno, insomma, resta indietro». Diallo, che è cresciuto in Senegal e ora vive a Parigi, è colpito da come i creativi neri riescano a inglobare la tradizione nel loro lavoro. Cita il ballerino e designer camerunense Imane Ayissi, che usa la stoffa Kente del Ghana per i cappotti e il Faso Dan Fani del Burkina Faso per gli abiti da cocktail. Emmy Kasbit, nigeriano, sceglie invece i tessuti Akwete della regione di Igboland. Lagos Space Programme, premiato quest'anno con il Woolmark Prize, propone collezioni in cui pizzi e broccati prendono forma sugli abiti grazie a una tecnica di tintura a riserva chiamata Adire, originaria della cultura Yoruba. C'è poi Thebe Magugu, dal Sudafrica. Primo africano a vincere il LVMH Prize, nel 2019, ha collaborato con Dior per una capsule e reinventato un abito da sera di Valentino per Vogue. «Queste collaborazioni sono importanti per dare visibilità: è un modo per presentare la moda africana attraverso un prisma familiare agli occidentali», spiega lo stilista. «Così facendo, anche i grandi brand hanno ottenuto dei vantaggi: la loro scelta ha ricevuto infatti più di un apprezzamento». Adama Ndiaye, la fondatrice senegalese del marchio Adama Paris, che ha prodotto la sfilata Métiers d’art di Chanel a Dakar lo scorso dicembre, si spinge oltre. «Quando un marchio del lusso come Chanel ci propone una collaborazione, significa che la moda africana ha fatto il grande salto», commenta parlando dell'evento che ha celebrato i maestri e gli artigiani locali. «È stato un enorme successo. L'idea di un'Africa che ha ancora bisogno di aiuti è ormai sorpassata: ora abbiamo noi il controllo della nostra storia, nessun altro». Ndiaye ha lasciato una carriera nel settore bancario a Parigi vent'anni fa per fondare il suo marchio e la Dakar Fashion Week. «All'epoca non venivamo invitati da nessuna parte. Perciò ci siamo mossi noi», ricorda. «Abbiamo ospitato stilisti da tutto il mondo, dal Brasile alla Moldavia, per far conoscere loro la nostra cultura. E abbiamo creato una piattaforma che desse visibilità, a noi ma anche a loro. Oggi gli stilisti africani sono conosciuti, perciò possiamo concentrarci sui nostri talenti».

L'ora africana

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La crescita della Dakar Fashion Week e della Lagos Fashion Week, che è seguita a ruota, una decina di anni fa, parla dello sviluppo del mercato dell'Africa subsahariana: la produzione di abbigliamento e calzature vale 31 miliardi di dollari. Secondo Ndiaye la scarsità di finanziamenti è uno dei maggiori ostacoli per gli stilisti: perciò è impegnata nella creazione di un fondo destinato agli emergenti. Per Thebe Magugu bisogna partire dalle infrastrutture: a giugno, mentre lanciava il suo shop online, con una clientela internazionale, Johannesburg affrontava una serie di interruzioni di corrente elettrica e fornitura d'acqua. «L'industria della moda locale ha ben presente le realtà che ci circondano, che sono difficili», dice Magugu. «Ma ormai abbiamo superato l'utopia di una moda “all'africana”, realizzata come si può, anche se facciamo ancora i conti con l'imperfezione». Al momento l'Africa rappresenta solo l'1,9 per cento della produzione globale: perciò la Banca africana di sviluppo (Afdb) sta dirigendo i propri investimenti nei settori che promuovono l'emancipazione economica delle donne; da qui, l'interesse per le industrie creative, inclusa quella della moda, come aree con un potenziale di crescita significativo (l'analisi di Fibre2Fashion TexPro indica importazioni di abbigliamento dall'Africa agli Stati Uniti per 3,491 miliardi di dollari nel 2022). Diallo ha voluto includere in questo servizio fotografico alcuni creatori di moda che al momento non risiedono in Africa, ma che hanno una prospettiva trasversale sul mondo, grazie appunto alle proprie origini. A Londra, Grace Wales Bonner parte dalle sue ascendenze caraibiche e dalla black culture per dipanare la storia della diaspora africana, mentre Priya Ahluwalia sceglie di intrecciare in più modi gli elementi della sua doppia cultura, indiana e nigeriana; l'esito è visibile nella collezione Africa is Limitless. La sua ricerca spazia dalle coperte d'epoca tunisine, oggi conservate nei musei, ai dischi della Costa d'Avorio che mettono in copertina i Sapeur, membri di un movimento che rivendica i propri canoni di eleganza, alle decorazioni con le perline di Kenya e Rwanda: una combinazione di elementi per celebrare l'Africa, «il continente delle meraviglie, in termini di innovazione culturale», come si legge nelle note alla sfilata. Ahluwalia condivide con gli stilisti locali una costante attenzione alla sostenibilità: come Emmy Kasbit, dà priorità ai materiali prodotti artigianalmente o che meritino una seconda vita. «Ovunque si trovino, i creativi africani hanno una marcia in più», dice la curatrice Christine Checinska. «Hanno proprio un altro modo di procedere: non sono legati alle stagioni e disegnano avendo presente, innanzitutto, la sostenibilità. Pensano alle persone, alle risorse, al pianeta. Incoraggiano un consumismo consapevole». Eccolo il filo rosso che cuce assieme questi stilisti: il desiderio di generare un ecosistema accettabile, ma anche l'energia nel rivendicare il diritto di esprimersi e affermarsi.

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ROTTA A SUD PRIYA AHLUWALIA, @ahluwalia. WILOW DIALLO, @sir.wilow. LAGOS SPACE PROGRAMME, @lagosspaceprogramme. ADAMA NDIAYE, adamaparis.com. VEDERE AFRICA FASHION, Brooklyn Museum, New York, fino al 22/10.

Riproduzione riservata ©

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