L’ordine di chiudere riguarda anche i professionisti? Perché sì e perché no
Il Governo per ora ha escluso gli studi professionali dalla chiusura per emergenza coronavirus. Due Regioni, Piemonte e Lombardia, hanno deciso il contrario. E gli esperti sono divisi
di Maurizio Caprino e Alessandro Galimberti
3' di lettura
I professionisti lombardi e piemontesi possono ancora tenere aperti i loro studi come consente l’ultimo Dpcm del Governo sull’emergenza coronavirus oppure devono rispettare le ordinanze delle loro Regioni che impongono loro la chiusura? L’Ordine dei commercialisti di Milano ritiene che prevalga il Dpcm e anche quotati costituzionalisti concordano. Ma ci sono anche pareri diversi. Tanto che la Lombardia ha chiesto lumi al ministero dell’Interno.
I commercialisti di Milano
«Noi abbiamo dato un’interpretazione ampia dell’ordinanza regionale e quindi teniamo aperti gli studi, anche perché ci sono tutta una serie di scadenze da rispettare e attività che vanno portate avanti e che devono essere fatte in studio». Lo ha spiegato all’Ansa il presidente dell’Ordine dei commercialisti di Milano, Marcella Caradonna, aggiungendo di aver chiesto chiarimenti alla Regione, «per scrupolo e per non incorrere in sanzioni».
La chiave sta nelle scadenze da rispettare: l’ordinanza della Regione Lombardia sospende l’attività degli studi professionali, salvo quelle «relative ai servizi indifferibili ed urgenti o sottoposti a termini di scadenza».
Caradonna ha aggiunto: «I bilanci vanno depositati poi, anche se sono stati prorogati, e c’è l’attività di assistenza alle aziende, fondamentale in questa fase» e, comunque, «molti di noi sono già in smart working, la categoria si è allineata da questo punto di vista, ma restano tante attività, come la prearazione dei cedolini, che vanno fatte in studio».
Gli avvocati
Analogo ragionamento sembra applicabile agli studi legali. Quantomeno a quelli dei penalisti, quando sono chiamati a intervenire in situazioni in cui ci sono misure restrittive come arresti e sequestri.
I costituzionalisti
Secondo Oreste Pollicino e Giulio Enea Vigevani, interpellati dal Sole 24 Ore, al Covid-19 si sta aggiungendo un virus giuridico che «sta affliggendo il principio di certezza del diritto, anche a causa del continuo avvicendarsi di fonti normative di carattere governativo, regionale e locale». Ma nel caso delle aperture e chiusure in Lombardia prevale il Dpcm. Per due motivi.
Il primo è il criterio gerarchico. La normativa governativa prevale, in caso di contrasto, con quanto previsto da un’ordinanza di un presidente di Regione: «In caso contrario vi sarebbe una frammentazione a livello regionale che non consentirebbe allo stato di realizzare il suo mandato costituzionale di assicurare un livello minimo di uniformità nella protezione dei diritti e delle libertà direttamente ed indirettamente coinvolte dall’adozione di misure di contenimento».
Il secondo motivo è che la stessa normativa emergenziale in vigore si era già premurata di dare esplicitamente la priorità alla normativa statale. Lo ha già fatto il Dl 6/2020, convertito subito in legge.
Osservazione che condivide la tesi di Rocco Todero, che attira l’attenzione sull’articolo 3 del Dl, secondo cui solo «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri» le Regioni possono intervenire, in caso di estrema necessità urgenza, le fonti ministeriali, regionali e locali rilevanti, comprese ovviamente le ordinanze dei presidenti di Regione. Ed è quello che è successo con l’ordinanza del presidente Fontana che, vista l’estrema necessità ed urgenza dettata dal drastico peggioramento della situazione sanitaria in Lombardia, nelle more dell’adozione del Dpcm in vigore in tutta Italia dal 23 marzo.
Sembra aderire a questo pensiero anche Confprofessioni, che ha espresso apprezzamento per l’esclusione degli studi professionali dalle restrizioni stabilite dal Dpcm.
Il parere discorde
Ma tra i professionisti si è diffusa pure un’interpretazione che ricorda il principio di sussidiarietà stabilito tal Titolo V della Costituzione in materia di Sanità, per cui le Regioni possono intervenire a completare sul proprio territorio le disposizioni dello Stato.
Ciò appare sostenibile solo nel caso in cui le disposizioni regionali siano più restrittive, proprio perché parliamo di una normativa volta a tutelare la salute. In quest’ottoca, non appare giustificabile un provvedimento che allarghi le maglie, creando potenzialmente più rischi.
Per approfondire
● Con Il Sole 24 Ore la guida “Decreto coronavirus - Fisco e lavoro”
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