L'ultima sfida di Frank Gehry: «Pronto a tutto per migliorare le città»
Costruisce a partire dall'interno verso l'esterno, facendo sbocciare la forma. È convinto che la facciata di un palazzo esprima la sua umanità. A 93 anni, l'architetto racconta il suo ultimo progetto nella capitale britannica. E la sua fiducia nei giovani
di Jackie Daly
7' di lettura
Pochi architetti viventi godono della fama di Frank Gehry, anche fuori dai circuiti degli addetti ai lavori. Americano di origini canadesi, Premio Pritzker nel 1989, è persino comparso come personaggio in un episodio de I Simpson, a cui lui stesso ha prestato la voce. Segno di quanta notorietà e risonanza abbia il suo lavoro fra il grande pubblico. Gehry è il maestro incontrastato delle forme curvilinee e frammentate, uno scultore prima ancora che un architetto, che riesce a materializzare, quasi magicamente, strutture audaci, così dinamiche che sembrano sul punto di staccarsi da terra e danzare per le città del mondo. Qualche esempio? La fluttuante Walt Disney Concert Hall, inaugurata a Los Angeles nel 2003; la Fondazione Louis Vuitton di Parigi, che sembra ondeggiare come vele al vento, del 2014; la Dancing House, uno degli edifici più iconici di Praga, completata nel 1996.
Gehry parla con passione ed emozione del suo lavoro: «L'architettura è una forma d'arte», dice dal suo studio di Los Angeles. È appollaiato su uno sgabello: dietro di lui, una parete piena di foto di amici e collaboratori. Cordiale e arguto, ha da sempre intuizioni affascinanti. Ci racconta che la politica internazionale, in questo momento, lo rattrista profondamente. È un sentimento reso ancora più intenso dal ricordo di alcune esperienze personali durante gli anni della Seconda guerra mondiale. «Quando ero ragazzino, ho avuto modo di ascoltare i discorsi di Hitler – spiega – e mi sono rimasti dentro. Adesso sembra che stiamo andando a infilarci nuovamente nella stessa trappola».
Gehry non è mai nostalgico, preferisce guardare al futuro: dice di riporre grande speranza nelle nuove generazioni. Questa convinzione lo ha portato a co-fondare, nel 2014, la Turnaround Arts: California che ha lo scopo di offrire ai giovani un'istruzione artistica. L'onestà, la spontaneità, l'immediatezza sono le doti che apprezza di più nei ragazzi: «Ti dicono subito che cosa pensano, senza filtri. Io ho due nipotine: mi chiamano Nano e sono estremamente dirette». A 93 anni, l'entusiasmo per il suo lavoro resta immutato: «Sono pronto a fare qualsiasi cosa aiuti a trasformare la città in un ambiente migliore».
Il 2022 segna due tappe importanti nella carriera di Gehry. La prima è il 25esimo anniversario del Guggenheim di Bilbao, lo scintillante colosso sulle rive del fiume Nervión: una testimonianza di come sia possibile trasformare un'area abbandonata in una destinazione culturale. Proprio in seguito a quell'opera e ai mutamenti che ha portato in tutta l'area, è stata coniata l'espressione “effetto Bilbao”. La seconda tappa è l'inaugurazione dei primi edifici residenziali che ha progettato in Gran Bretagna, alla Centrale Elettrica di Battersea, a Londra. Anche questi fanno parte di un audace progetto di rigenerazione urbana da 9 miliardi di sterline, che trasformerà un'area industriale dismessa di 170mila metri quadrati in un nuovo quartiere della città e in una mecca dello shopping sulle rive del Tamigi. Per Gehry queste torri residenziali sono una lettera d'amore a Londra. «Abbiamo messo cuore e anima nel progetto perché amo questa città», dice. «Volevo fare del mio meglio». Purtroppo, a causa delle difficoltà create dalla pandemia, non ha ancora potuto vedere di persona il risultato, ma, per chi può andare sul posto, non ci sono dubbi: la firma è inequivocabilmente la sua. Le torri ospitano 308 appartamenti il cui prezzo base è di 995mila sterline: alcuni godono di una doppia esposizione e si affacciano su terrazze piene di verde, altri si sviluppano intorno a una scala elicoidale. Poi ci sono attici da 5,5 milioni di sterline, con vista panoramica a 360 gradi sulla città: i primi residenti sono appena entrati.
Gehry non è l'unico architetto ad aver progettato in quest'area. Proprio accanto alle torri svetta un sinuoso edificio residenziale di Norman Foster, le cui linee flessuose danno vita, su entrambi i lati, a boulevard commerciali con boutique e ristoranti. Gehry li paragona «alle strade formate dai primi edifici curvilinei di John Nash». Tutto questo avviene alle spalle della storica centrale elettrica di mattoni rossi di Battersea, costruita tra il 1929 e il 1955 su un'area talmente vasta che potrebbe contenere sia Trafalgar Square sia la cattedrale di St. Paul. All'interno, tra mattonelle art-déco e colonne industriali, sta prendendo forma un centro commerciale che aprirà al pubblico a settembre e che è parte del piano di sviluppo della Battersea Power Station Development Company. La nuova fermata Battersea Power Station, sulla Northern Line della metropolitana, serve la frenetica comunità locale che diventerà ancora più numerosa quando, agli inquilini delle 254 abitazioni già presenti nell'area, si aggiungeranno quelli dei palazzi di Gehry e Foster e degli altri, sempre firmati Gehry, che saranno pronti nei prossimi 10 anni.
L'intuizione dell'architetto è stata quella di creare un “edificio fiore”, connesso alla centrale elettrica. «Le mie costruzioni sono ideate a partire dall'interno verso l'esterno, non viceversa. Si procede così: una o più camere, poi le terrazze, ma la facciata è ciò che dà umanità al tutto», spiega. «Non si tratta di una scatola anonima, con qualche foro qua e là». Gehry insiste nel dire che è questo il fattore che distingue i suoi progetti dagli altri. «Credo sia questa la ragione per cui parlano alla gente: quanto più un edificio ha umanità, tanto più ha successo». Mentre racconta, si gira sullo sgabello e indica una fotografia dell'Auriga di Delfi. È grazie a questa statua greca scoperta nel tempio di Apollo che, più di 50 anni fa, tutto è cominciato. «È stata un'epifania. Sono entrato nel museo di Delfi ed era lì: quest'opera meravigliosa mi ha commosso fino alle lacrime. Ho pensato: “Wow, migliaia di anni fa qualcuno ha creato qualcosa che mi sta facendo piangere”. Ecco che cosa voglio fare con i miei edifici, quali sentimenti voglio suscitare».
Vestito con T-shirt, pantaloni sportivi e occhiali senza montatura appoggiati sulla testa, si muove con agilità. La sua energia è contagiosa e si riflette in tutto lo studio. È uno spazio semplice, bianco, arredato con mobili essenziali di legno. Plastici e dipinti saturi di colore sono ammucchiati in ogni angolo. Su un mobile c'è un grande pesce di terracotta. Gehry è affascinato dai pesci e li ha usati spesso come fonte di ispirazione: basti pensare alle lastre di titanio a forma di squame che rivestono il Guggenheim di Bilbao e al Peix color oro, alto 52 metri, costruito sul lungomare di Barcellona in occasione delle Olimpiadi del 1992. «I pesci esistono da milioni di anni e hanno un aspetto architettonico – spiega così la sua attrazione – ma il fattore chiave e la sfida che mi ha affascinato è stata trasferire il loro movimento a una costruzione. Con il museo di Bilbao (costruito tra il 1993 e il 1997), per la prima volta, ho disegnato una forma curva facendomi ispirare dal movimento dei pesci», dice ridendo. «E in effetti l'edificio ha un che di marino».
Le nuove costruzioni londinesi curvano allo stesso modo, ma la facciata esterna, interamente bianca, restituisce un'immagine più semplice e modesta rispetto ad altri suoi progetti. Gehry spiega che è stata una scelta voluta per non prevaricare la centrale elettrica. Anzi, le torri sono state concepite come parte integrante di un gruppo di quattro edifici che dialogano l'uno con l'altro. Questo approccio ricorda quello utilizzato per il grattacielo ondulato di 76 piani ultimato a New York nel 2011: pur essendo ispirato alle curve e ai drappeggi delle sculture del Bernini, richiama anche i dettagli dell'adiacente Woolworth Building. «Ho una fotografia che ritrae il ponte di Brooklyn, il nostro grattacielo e il Woolworth Building: sembrano un unico complesso, anche se sono diversi», continua. «Significa che al posto di costruire ognuno il proprio edificio ego-riferito, si stabilisce un dialogo, si vive insieme in armonia».
Il lavoro di Gehry si accompagna sempre a una certa dose di coraggio. «A tutti piace Michelangelo», ride. «Ma Michelangelo o Bernini non avevano bisogno di essere coraggiosi, la società in cui vivevano supportava e rispettava il loro estro. Oggi, invece, ci vuole audacia per essere un artista». E non ci sono differenze fra arte e architettura: «Tutti i grandi del Rinascimento erano anche architetti, da Giotto a El Greco». Su questo punto molti sono stati in disaccordo con lui, specialmente agli inizi, quando – dopo essersi trasferito con la famiglia dal Canada agli Usa nel 1947 – si era appena laureato alla University of Southern California. «I miei coetanei e colleghi mi criticavano. Invece la comunità artistica di Los Angeles mi ha accolto subito, sono cresciuto immerso in quella cultura. Io non badavo a ciò che facevano gli altri architetti. Dopo la guerra, tutti gli insegnanti guardavano al Giappone e anche io ho iniziato ad appassionarmi al Paese. Addirittura, ho suonato in un'orchestra giapponese».
L'amore di Gehry per la musica ha avuto una profonda influenza sul suo lavoro. È stata una passione precoce che si ritrova anche in molti dei ricordi d'infanzia di cui ama parlare. «La mia famiglia si chiamava originariamente Goldberg e abitavamo a Toronto, dove Glenn Gould ha eseguito le Variazioni Goldberg di Bach. Mi piaceva – e mi piace ancora – tantissimo ascoltarle. Hanno rappresentato una parte importante della mia vita», dice. Per questo sarebbe ben felice che si prospettasse l'occasione di progettare altre sale da concerti. La madre ha avuto un ruolo fondamentale nella sua formazione, dalla musica all'arte. «I miei genitori non erano ricchi, ma mia madre mi portava spesso ai concerti alla Massey Hall. L'orchestra era diretta da Ernest MacMillan. Io lo incontravo sempre mentre attraversava in bici il parco dove anche io passavo per andare a scuola. Spesso si fermava e facevamo due chiacchiere. Mia madre mi portava anche al museo – quello che molto tempo dopo avrei rinnovato (la Art Gallery di Ontario, terminata nel 2008, ndr) – ed è così che, insieme alla musica, è nato il mio interesse per l'arte».
È sempre per via di sua madre se Gehry si considera anglofilo e monarchico: uno dei motivi per cui, fra l'altro, il progetto londinese gli sta tanto a cuore. «Mia madre si vantava del fatto che, una volta, un suo parente era stato invitato a un tè offerto dalla Regina Madre. Ne andava fiera quasi come se questo significasse che la sua famiglia fosse imparentata con i reali», racconta. «Ci sono molti aneddoti divertenti. Per esempio, ricordo come, ormai molto anziana, fantasticasse di essere proprio la Regina Madre. La monarchia britannica, l'inno nazionale: fa tutto parte della mia cultura e della mia vita. Ci sono cresciuto, è il mio retaggio». Una volta Gehry ha incontrato Diana, la principessa del Galles. Ma è ancora in attesa di un invito per il tè a Buckingham Palace.
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