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L’ultimo unicorno italiano che vuole ancora cambiare il mondo

Alberto Dalmasso. La sua Satispay vale 1 miliardo di dollari, cresce in maniera tumultuosa ma è ancora presa sottogamba dalle banche. E fatica contro burocrazia e leggi per assumere

di Lello Naso

Alberto Dalmasso, 38 anni, di Cuneo, è laureato in Economia all’Università di Torino. Ha iniziato la sua carriera lavorativa con un’esperienza nell’import-export. In seguito si è occupato di Marketing&Business Development di Ersel (Private Banking e Asset Management), lasciata nel 2013 per fondare Satispay

6' di lettura

Non sono cambiati i piani di Alberto Dalmasso, 38 anni, piemontese di Cuneo, cofondatore e amministratore delegato di Satispay, la società di pagamenti digitali che a fine settembre, al termine di un round di finanziamento internazionale, ha superato il valore di un miliardo di dollari ed è diventata l’ultimo unicorno italiano. Quando era studente di Economia a Torino, venti anni fa, e alloggiava al collegio Villa San Giuseppe («un ambiente spartano, ma molto vivo», dice Dalmasso), con i suoi compagni discuteva animatamente di come si poteva cambiare il mondo. «Eravamo un gruppo che studiava in facoltà diverse ma molto affiatato», racconta, «passavamo ore a parlare del futuro, a sognare le cose che avremmo voluto fare. Con uno di loro, Dario Brignone, nel 2015 abbiamo fondato Satispay».

L’obiettivo è rimasto lo stesso. Cambiare il mondo. Dalmasso lo dice senza enfasi, come fosse una cosa normale, un traguardo a portata di mano. È l’aspetto che più impressiona in questo giovane imprenditore: la totale dissonanza tra le cose che dice, apparentemente iperboliche, e l’assoluta serenità e naturalezza con cui le dice. «Cambiare il mondo – spiega – vuol dire semplificare la vita delle persone, lavorare per costruire un’equità sociale con una redistribuzione della ricchezza sana e un riequilibrio tra le generazioni».

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Satispay semplifica la vita della gente comune, non c’è dubbio. Bastano un conto corrente e uno smartphone, due strumenti largamente diffusi nella popolazione europea, per effettuare un pagamento in uno degli esercizi convenzionati, per scambiarsi piccole somme di denaro o fare pagamenti. Non servono carte di credito, non serve plastica e non si pagano mai commissioni. Lo hanno scelto tre milioni di utenti e la crescita sta diventando tumultuosa. «Per il primo milione di utenti – spiega Dalmasso – ci abbiamo impiegato 70 mesi, per il secondo milione 12 mesi, per il terzo dieci». Per gli acquisti fino a dieci euro non pagano commissioni neanche gli esercenti – sono oltre 200mila – che, invece, per le transazioni di importo superiore pagano 20 centesimi a scontrino, una commissione fissa, indipendente dagli importi. «Satispay è nata dalla voglia di fare che avevamo a Villa San Giuseppe e dall’osservazione della realtà. Tutte le volte che ci è capitato di non avere gli spiccioli per pagare il caffè o di trovare un esercente senza resto e che non dava la possibilità di utilizzare la carta di credito o il bancomat, ci facevamo la stessa domanda: possibile non ci sia un modo per pagare senza contante e senza carte? Possibile che non si possano abbattere le commissioni?». Eccoci: semplificare un gesto quotidiano per cambiare il mondo. «Io lavoravo a Ersel, il primo fondo d’investimento nato in Italia. Un bel lavoro, un ambiente ideale, una società finanziaria ben gestita, dimensioni medie. Imparavo tantissimo, ma non mi bastava. Dario faceva l’informatico per una società dell’oil and gas in Kazakistan. Facevamo le riunioni su Skype per inventarci qualcosa. Quando abbiamo capito che c’erano i margini giuridici e tecnologici per partire con Satispay, ci siamo licenziati entrambi e abbiamo iniziato il cammino».

I soldi venivano in gran parte da un’avventura imprenditoriale di famiglia iniziata appena prima della laurea. La costruzione di sette impianti fotovoltaici che fruttava quattromila euro al mese di utile. «C’è una predisposizione genetica», racconta Dalmasso con un filo di ironia. «In famiglia non stiamo mai fermi. Abbiamo comprato e venduto noccioleti, c’è stato un momento in cui abbiamo avuto due milioni di lumache. A casa nostra il trasloco e il cambio di attività sono un’abitudine…». Ma il grosso è arrivato dagli investor angels e dai finanziamenti reperiti sul mercato. «Siano bravi a fare le presentazioni – dice sornione Dalmasso – ma sono stati determinanti due fattori, e lo sono ancora: andare davanti agli investitori avendo messo in gioco tutto, il lavoro e i risparmi personali; avere un progetto ambizioso. Chiedevamo, in grande, 40 milioni di euro, ma non abbiamo avuto difficoltà a raccogliere i 400mila euro che servivano per partire. Così come, negli anni, non è stato difficile trovare i fondi necessari per gli sviluppi successivi, fino all’ultimo round da 320 milioni».

Nella sede milanese di Satispay il riequilibrio generazionale e l’equità sociale sono due obiettivi concreti. L’età media dei 200 dipendenti è 31 anni. Le assunzioni marciano al ritmo di due al giorno («ma ne servirebbero quattro», dice Dalmasso) e i dipendenti raddoppieranno in un anno. Si cercano profili di tutti i tipi. La preferenza va a chi ha fatto esperienze all’estero e ha voglia di tornare, i talenti emigrati da riportare in Italia. «Cerchiamo giovani determinati e folli – dice Dalmasso – ragazzi che hanno voglia di mettersi in gioco e imparare».

Nel loft del quartiere Isola di Milano i ragazzi sciamano a gruppetti. L’atmosfera è particolare. Attraversata l’insegna luminosa “Open” che sta sulla porta d’ingresso si entra in un ambiente informale, ma non sciatto come quello delle start up-garage, un livello ampiamente superato. Il desk di Dalmasso è uguale a tutti gli altri, in uno dei tre open space dell’ufficio, in una postazione tutt’altro che privilegiata, accanto a un corridoio da cui chiunque passa può sbirciare lo schermo. Un amministratore delegato con una barba corvina molto autorevole, ma in jeans, camicia sportiva e sneaker colorate e che chiacchiera con i ragazzi che incrocia e che sembrano molto coinvolti nel progetto. «Dopo sei mesi di permanenza a Satispay si maturano le stock option. Ma alla fine dell’ultimo round, moltissimi hanno deciso di tenerle. Chi le ha vendute lo ha fatto per aiutare i genitori. Sono stato molto contento di saperlo».

Le aspettative sono grandi, l’immersione nel progetto totale. «Il Paese – dice Dalmasso – dovrebbe dare una mano e comprendere le esigenze delle start up e delle imprese giovani». Niente aiuti, non servono. Solo interventi per facilitare le condizioni di investimento. «Le opportunità sono straordinarie anche se l’Italia non è un Paese facile. Il diritto societario andrebbe riformato in maniera robusta. Il recesso, i limiti ai diritti di voto e ai patti parasociali, così come sono, scoraggiano gli investitori esteri. La burocrazia ritarda le operazioni di finanziamento. Si perdono sei mesi, a volte un anno. In un anno cambia il mondo. Il risultato è che si perdono i soldi di finanziatori che erano ben disposti».

Dalmasso parla di esperienze vissute da Satispay. È l’unico momento in cui la voce si alza di mezzo tono. «Non è possibile che per assumere una persona dall’estero – dice – ho bisogno di tre dipendenti che ci lavorano per un anno e non ne vengono a capo. O che non si può assumere con 200 milioni sul conto corrente perché l’anno precedente il bilancio ha chiuso in perdita. Su questo c’è molto da lavorare».

Dalmasso vede un futuro con spazi di crescita enormi. «Abbiamo aperto gli uffici in Francia, Germania e Lussemburgo. Gli obiettivi, immediati e di breve periodo, sono chiari. Dominare il mercato italiano, crescere in Europa e diventare il primo strumento di pagamento elettronico del Vecchio continente. Lo sviluppo dei pagamenti digitali avverrà per campioni dei mercati locali, soggetti capaci di comprendere le esigenze nei singoli territori. Su questo terreno non temiamo la concorrenza delle banche e delle carte di credito. Siamo un altro mercato e credo che anche loro, sbagliando, non ci temano perché ci considerano una nicchia marginale». Forse pensano che, al momento opportuno, faranno l’offerta che non si può rifiutare e compreranno tutto. «Se lo pensano, sbagliano. Non abbiamo nessuna intenzione di vendere. Pensavamo, sbagliando, di crescere molto più velocemente da start up, ma avevamo sottovalutato quanto possiamo progredire nei prossimi anni. Vendere non ha senso. Avremo bisogno di altri 400 milioni di risorse per consolidarci sui mercati europei, ma il nostro percorso è chiaro. Cinque-sei anni di crescita e poi la quotazione in Borsa». Neanche la ricchezza immediata, monetizzare vendendo, attira Dalmasso. «Che cosa vuol dire essere ricco? A quale cifra si è ricchi? A noi interessa cambiare le cose. E poi si può diventare ricchi anche tenendo la proprietà dell’azienda per tutta la vita. Bill Gates e Steve Jobs non hanno venduto…».

È venerdì pomeriggio. Ci sono ancora un paio di riunioni. Poi la partenza per il week end a casa, a Cuneo, con la moglie e i due bimbi piccoli. «È finito il periodo del lavoro sette giorni su sette, anche perché la notte, con i piccoli si dorme poco. Ho messo nella borsa l’attrezzatura per il nuoto, la corsa e la bici. Deciderò sul momento cosa fare, ma non voglio essere impreparato».

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