L’unica emergenza vera è la nostra incapacità di prendere decisioni
Negli ultimi venti anni, nel mondo, in Europa e in Italia, siamo passati da una emergenza all'altra
di Mario Baldassarri
4' di lettura
Negli ultimi venti anni, nel mondo, in Europa e in Italia, siamo passati da una emergenza all'altra. In realtà quelle che chiamiamo “emergenze” sono il risultato finale di mancate decisioni strutturali di politica economica, industriale, sociale.
All’inizio di questo secolo era già chiaro che la globalizzazione dei mercati e della finanza richiedeva una nuova governance mondiale. Il vecchio G7 rappresentava ormai soltanto un terzo del mondo e non poteva pretendere di dettare regole e farle rispettare da parte degli altri due terzi. Occorreva subito un nuovo G8 composto da Stati Uniti, Cina, India, Russia, Giappone, un Paese dell'Africa, un Paese dell’America Latina. L’ottavo Paese era inevitabilmente un’Europa federale in politica estera, difesa e sicurezza, immigrazione, grandi reti energetiche e grandi reti per le nuove tecnologie digitali, il tutto sostenuto da un bilancio federale continentale.
L’Europa ha invece solo di fronte al Covid ha varato il Next Generation Eu. Certamente ha battuto un bel colpo ma tuttora... una tantum.
L’Occidente ha continuato con il “suo” G7 e si è trastullato con un impotente G20. Gli altri hanno fatto i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e prefigurano un’altra governance separata e contrapposta.
In questo vuoto pneumatico era evidente che sarebbero esplose delle crisi che chiamiamo “emergenze”.
Infatti, la Russia di Vladimir Putin, dopo la fuga americana dall’Afghanistan, ha invaso l’Ucraina, riportando la guerra dentro l’Europa. E tutti, soprattutto noi europei più vicini e più colpiti, abbiamo parlato di emergenza della guerra e della conseguente emergenza energetica.
Prima dell’invasione russa della Crimea nel 2014 la dipendenza dal gas e petrolio russi era attorno al 20 per cento. Prima dell’invasione dell’Ucraina a fine 2021 era balzata al 40 per cento.
Negli ultimi due decenni abbiamo avuto alcune epidemie che hanno colpito diverse specie animali. Prima o poi una di queste sarebbe passata alla specie umana. Non importa se viene dai pipistrelli o da un laboratorio. Sta di fatto che da anni dovevamo avere un welfare mondiale per la salute del pianeta, per gli uomini, per gli animali e per la salvaguardia dell’ambiente.
Certamente abbiamo inventato in gran fretta i vaccini che hanno tamponato il Covid. Ma oltre quattro miliardi di persone nel mondo vivono in paesi che non sono in grado né di produrli, né di pagarseli, né di distribuirli, né di iniettarli.
Nel 2008 abbiamo avuto una pesante emergenza finanziaria innescata negli Stati Uniti dai mutui Fannie Mae e Freddie Mac seguita dal fallimento di Lehman Brothers. Ma sapevamo che mutui al 110% del valore della casa non sono sostenibili, per di più senza verificare la capacità di pagare le rate sulla base del reddito del mutuatario. Tutti hanno chiuso gli occhi per anni e anni perché con i subprime e i derivati si facevano enormi utili finanziari.
Ma veniamo all’emergenza attuale tutta italiana, la crisi idrica.
Nel 1979, Beniamino Andreatta fu nominato ministro del Bilancio. Mi chiese di seguirlo come giovane economista e affidò a un gruppo di esperti, che comprendeva anche generali dei carabinieri, l’analisi e le possibili soluzioni sul problema dell’acqua nel Sud.
L’analisi fece emergere decine e decine di piccole aziende di acquedotti, tutte con presidente, vicepresidente, consiglieri di amministrazione, direttori generali e migliaia di dipendenti. Quasi tutte disperdevano tra il 40 e il 60% dell’acqua lungo tubi pieni di buchi e di prelievi abusivi. Tutte troppo piccole per fare gli investimenti necessari per rifare le fatiscenti reti idriche.
Esisteva però un’eccezione: l’Acquedotto Pugliese, una delle maggiori aziende per l’acqua in Europa.
La proposta che emerse fu allora quella di prendere come perno l’Acquedotto Pugliese, collegarlo alle enormi riserve idriche della Basilicata e portare acqua abbondante in Campania, Calabria e Sicilia. In una prima fase si sarebbe cioè “nazionalizzata” l’acqua del Sud in una grande azienda unica che chiamammo Sma, Società meridionale delle acque. Lanciato e realizzato il piano, quella azienda pubblica poteva poi diventare una public company con la sua quotazione in borsa.
Beniamino Andreatta rimase solo e di quel progetto non se ne è più parlato. Siamo passati da una crisi idrica all’altra, specie nel Sud, e adesso parliamo di emergenza. Televisioni, giornali e social proprio in questi giorni hanno “rivelato” che la crisi non dipende dalla mancanza d’acqua, anche se il fatto che non piova da mesi accentua il problema, ma in gran parte dipende da un 40-60% di acqua dispersa lungo i tubi. A molti è sembrata una clamorosa notizia. È vecchia di 43 anni. Non è difficile capire quali interessi in questi decenni abbiamo impedito il Piano Andreatta.
Chiudo infine con una testimonianza ancor più personale.
Nel 1993 Francesco Rutelli fu eletto sindaco di Roma e mi fu chiesto di far parte del Consiglio di amministrazione dell’Acea che aveva un grande manager, Paolo Cuccia. All’inizio si gestì efficacemente la decisione dell’Antitrust secondo la quale l’Enel “doveva” cedere ad Acea 700mila utenze nel comune di Roma che diventò così una multiutility,gestendo insieme acqua e luce.
Il Comune di Roma ha da sempre una municipalizzata per la raccolta dei rifiuti, l’Ama che quindi andava ad affiancarsi strategicamente all’Acea. L’Ama spendeva (e spende tuttora) tanti soldi per smaltire i rifiuti, portandoli fuori dalla regione Lazio e anche fuori dall’Italia. L’Acea doveva pagare le sue fonti energetiche per produrre elettricità. Si delineò pertanto un progetto strategico che avrebbe mantenuto Roma pulita e avrebbe dato ai cittadini romani energia elettrica a prezzi più bassi. L’Acea avrebbe costruito e gestito tre termovalorizzatori con i quali produrre energia “comprando” i rifiuti dell’Ama, molto meno costosi delle altre fonti di energia, dando quindi ai romani elettricità a prezzi più bassi. L’Ama, invece di pagare per portare altrove i suoi rifiuti, li avrebbe venduti all’Acea e avrebbe incassato soldi con i quali avrebbe reso il servizio raccolta rifiuti di Roma il più efficiente d’Italia.
In trent’anni non se ne è fatto nulla e oggi ci si scontra per un solo termovalorizzatore, mentre l’emergenza rifiuti ha alimentato l’emergenza cinghiali.
In sintesi, nel mondo, in Europa, in Italia abbiamo per decenni avuto troppi nasconditori di problemi strutturali, sacerdoti di riti e macumbe che pretendono di esorcizzare le continue “emergenze” che non sono tali.
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