L’unico futuro possibile per la Terra è rigenerativo
Mathis Wackernagel, padre dell’impronta ecologica, delinea la strada per invertire il trend del consumo delle risorse naturali
di Elena Comelli
I punti chiave
4' di lettura
«Non c’è altro futuro possibile se non quello rigenerativo» Ne è convinto Mathis Wackernagel, padre dell’impronta ecologica e Ceo del Global Footprint Network, che ha partecipato a Brescia al festival “Una Sola Terra”, nell’ambito di Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura. In base ai calcoli del Global Footprint Network, nel 2023 l’umanità ha vissuto come se avesse a disposizione 1,7 pianeti, consumando in soli sette mesi le risorse naturali che la Terra è in grado di rigenerare in un anno intero.
L’Overshoot Day, infatti, quest’anno è caduto il 2 agosto e da quella data viviamo a credito. Per definizione, però, non possiamo vivere a credito con il pianeta per sempre. Non è filosofia, ma matematica. Prima o poi la “banca delle risorse” ci chiederà di rientrare nel nostro budget e dovremo vivere con quello che la biosfera è in grado di rigenerare. La domanda è quando e soprattutto come ci arriveremo.
Agire più rapidamente
Per Wackernagel, «agire troppo lentamente e lasciare che il cambiamento climatico prenda il sopravvento distruggerà buona parte del budget rigenerativo del pianeta». Agire rapidamente, invece, «potrebbe richiedere più impegno nel breve termine, ma lascerà all’umanità più opzioni, più biocapacità e una porzione maggiore di risorse non ipotecate». L’ambientalista svizzero ha elaborato fin dagli anni 90, dopo una laurea in ingegneria meccanica al Politecnico di Zurigo e un dottorato in gestione territoriale all’università della British Columbia, uno strumento di contabilità delle risorse che misura quanto capitale naturale abbiamo, quanto ne utilizziamo e chi consuma che cosa.
Lo strumento dell’impronta ecologica
Il suo team monitora quanta area biologicamente produttiva è necessaria per soddisfare tutte le richieste degli abitanti di ogni Paese (incluso l’import-export), a partire dai terreni per la coltivazione alimentare, per l’estrazione delle materie prime, per la rigenerazione del legname, per ospitare le infrastrutture costruite e per lo smaltimento dei rifiuti, comprese le emissioni di anidride carbonica derivanti dalla combustione delle fonti fossili. Questa metrica contabile funziona come un estratto conto e certifica ogni anno se stiamo vivendo nei limiti del nostro budget ecologico o se consumiamo più risorse di quante il pianeta possa rinnovare.
L’obiettivo è rendere evidente il deficit nel bilancio naturale, ma soprattutto offrire parametri e soluzioni per aiutare ogni Paese, ogni azienda e ogni famiglia a rientrare nel proprio budget, spostando i consumi alimentari ed energetici in maniera oculata. «Le metriche dell’Ecological Footprint possono essere utilizzate dai governi e dalle imprese come una bussola per la rivoluzione industriale orientata alla transizione ecologica. Rientrare nel budget naturale non va visto come un sacrificio o una riduzione delle nostre comodità, ma come uno spostamento verso tecnologie più avanzate e più pulite e verso un’economia più giusta, dove il benessere non diminuisce, ma aumenta per tutti. Aggiustare le nostre abitudini serve proprio per salvare il benessere che abbiamo conquistato, prima che il pianeta ci chieda il conto in maniera brutale», precisa Wackernagel.
I consumi stanno rallentando ma è lontana l’inversione
Per adesso, però, sta succedendo il contrario. Negli ultimi 50 anni il giorno dello sbilancio è arretrato sempre più: nel ’73 cadeva il 3 dicembre, nel ’93 il 27 ottobre, nel 2013 il 3 agosto e quest’anno il 2 agosto. «La curva dell’impronta umana, come si vede dalla progressione delle date, si sta appiattendo, grazie a una crescente consapevolezza della crisi e alle politiche per limitare i danni, ma non siamo ancora arrivati all’inversione di tendenza», fa notare Wackernagel. Il Global Footprint Network ha documentato in questi anni la “grande accelerazione”, ovvero quella ripida impennata nella curva dei consumi umani e delle emissioni di gas serra partita con il boom degli anni 50 e arrivata ormai, secondo molti esperti, quasi al suo picco. Dal 1950 a oggi la popolazione umana è più che triplicata (da 2,5 a 8 miliardi), il Pil globale è decuplicato, la produzione di plastica è passata da 2 a 360 milioni di tonnellate l’anno e la concentrazione di CO2 in atmosfera è uscita dai limiti di sicurezza (fissati a 350 parti per milione), crescendo da 310 ppm nel ’50 a 424 quest’anno, con le conseguenze sul clima che vediamo.
«L’appiattimento della curva significa che i consumi umani di risorse naturali stanno rallentando, ma continuano a superare di gran lunga il budget annuale a disposizione. In altre parole, la vasca si riempie più lentamente, ma continua a riempirsi. Quello che dobbiamo ancora capire è se siamo disposti a fermarci prima che l’acqua trabocchi. Si tratta di decidere se attuare la transizione ecologica «by design or by disaster», come si dice in inglese», precisa Wackernagel. Finora le battute d’arresto, che hanno fatto arretrare l’Overshoot Day, sono arrivate soltanto in seguito a disastri di varia natura, dalla grande recessione dell’80-’83 alla prima guerra del Golfo del ’90-’91, dal crollo della Net Economy del 2001 alla crisi dei mutui del 2008, fino alla pandemia di Covid-19 del 2020. «Decidere di anticipare il giorno dello sbilancio senza aspettare i disastri è possibile», assicura Wackernagel. Basta volerlo.
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