L’università il futuro della crescita
Parigi è a ferro e fuoco per la riforma delle pensioni. I pensionati continuano ad essere al centro del dibattito in Italia. Dei giovani, invece, si discute poco o nulla. Eppure, il nostro futuro dipende da loro. In particolare, da coloro che vanno all'università o che escono dall'università.
di Sergio Fabbrini
3' di lettura
Parigi è a ferro e fuoco per la riforma delle pensioni. I pensionati continuano ad essere al centro del dibattito in Italia. Dei giovani, invece, si discute poco o nulla. Eppure, il nostro futuro dipende da loro. In particolare, da coloro che vanno all'università o che escono dall'università.
Su Il Sole 24 Ore di domenica scorsa, un servizio molto accurato ha descritto la situazione preoccupante del nostro sistema universitario. Il calo demografico sta riducendo le iscrizioni alle università italiane, ogni anno l'8% di laureati italiani lascia il Paese (250mila tra il 2012 e il 2021; 400 mila secondo altri dati), siamo l'unico Paese europeo in cui gli studenti italiani che vanno all'estero sono il doppio degli studenti stranieri che vengono in Italia. Questi processi stanno desertificando in particolare il sud (i cui giovani vanno a studiare al centro-nord), ma stanno anche penalizzando l'intero Paese (con i giovani del centro-nord che, a lor
Ogni anno, inesorabilmente, perdiamo capitale umano indispensabile per rimanere un Paese avanzato, sul piano industriale, tecnologico e culturale. Ma perdiamo soprattutto i protagonisti potenziali dell’innovazione, in quanto chi emigra è spesso più motivato di chi rimane. Alcune università italiane stanno reagendo aprendosi al mercato internazionale degli studenti e degli studiosi. In questi giorni è uscito il QS World University Ranking che colloca alcune università italiane (tra cui quella in cui insegno) tra le prime posizioni al mondo. Si tratta di università che hanno perseguito con coerenza la strategia dell'internazionalizzazione e della meritocrazia, grazie alla coesione delle leadership accademiche e di quelle amministrative. Tuttavia, il nostro sistema universitario, nel suo complesso, è fermo. I Paesi Bassi hanno un maggior numero di università competitive rispetto all’Italia, pur avendo una popolazione che è 1/3 della nostra.
Ciò dipende da fattori strutturali e culturali. Sul piano strutturale, il nostro sistema universitario è in ritardo perché continua ad essere dominante l’idea centralistica e “fordista” di università “tutte eguali”, come vorrebbe il valore legale della laurea, così come di università internamente omogenee. Niente di più sbagliato. Le università sono tra di loro diverse, così come ogni singolo ateneo è internamente differenziato. La differenziazione è utile perché stimola la competitività, favorendo la specializzazione. Nel 1963, Clark Kerr, allora presidente della University of California, sostenne che la university doveva divenire una multiversity, un sistema pluralista che assolve funzioni diverse attraverso organismi diversi. In una multiversity, vi sono dipartimenti e studiosi impegnati sulla frontiera della ricerca internazionale, ma anche scuole e colleghi che si dedicano invece alla formazione più strettamente professionale oppure a quella di base. Tuttavia, la multiversity può funzionare se le componenti del pluralismo riconoscono la leadership della ricerca internazionalizzata. Così avviene in tutte le grandi università del mondo (pubbliche e private). L’università vive di reputazione e la reputazione è trascinata dalla ricerca internazionalizzata. Per l’università, la reputazione è l’equivalente del capitale per un’impresa. Un’impresa non può crescere senza il capitale generato dall’innovazione, condizione per conquistare nuovi mercati. Così vale per l’università. È la reputazione della ricerca internazionalizzata che si trasferisce sulle altre attività della multiversity, non già viceversa. Come il capitale, la reputazione richiede molto tempo per essere costruita, ma basta una notte di bagordi per dissiparla.
E qui intervengono i fattori culturali. Il pluralismo funziona se tutte le sue componenti condividono lo stesso ethos accademico, costituito di indipendenza intellettuale e riconoscimento della qualità. Nell’università, le distinzioni non debbono essere tra destra e sinistra, ma tra approcci scientifici, metodi di ricerca e risultati conseguiti. L’università è al servizio della conoscenza. E la conoscenza non ha confini nazionali, colori politici, colleganze di interesse. In Italia, però, non è così. La componente italocentrica (se non nazionalista), predominante in molte università ma presente ovunque, difende l’università come un luogo chiuso, dove le corporazioni accademiche possono stare al riparo dalle valutazioni internazionali. In Italia, non sono pochi coloro che interpretano l’università come un’arena per l’esercizio del potere, se non addirittura come una replica banalizzata del sistema politico. Questa università non sa distinguere il merito dall’appartenenza ideologica o corporativa. Più che di docenti, si tratta di capi-bastone specializzati nel fare/disfare carriere. Come si può pensare che i giovani più motivati rimangano in Italia per fare ricerca?
Un Paese non può crescere, se non dispone di università o dipartimenti che sono alla frontiera della ricerca internazionalizzata. Senza quest’ultima, non si può costruire l’infrastruttura concettuale e tecnica per la crescita inclusiva del Paese, definendo standard sempre più alti per la formazione delle sue classi dirigenti. Però, non solamente l’università deve modernizzarsi, ma deve cambiare mentalità l’intero Paese. Non si possono perdere 250-400 mila giovani laureati perché i salari italiani sono più bassi che altrove, perché le competenze non sono valorizzate, perché le pratiche nelle imprese e nelle istituzioni continuano ad essere insopportabilmente gerarchiche. Mentre discutiamo di pensioni, i giovani se ne vanno. È scandaloso.
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