L’uomo con il cagnolino, una storia di tenerezza e solitudine
di Serena Uccello
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Premessa: chiunque coltivi l’amore per la scrittura si segni il nome di Sara Baume. Svolgimento: strano e meraviglioso oggetto questa sua storia che NN Editore pubblica (dall’8 marzo in libreria, pp.240 - 18 euro) con il titolo di Fiore Frutto Foglia Fango. L’editore italiano con questo titolo sceglie di marcare il tratto principale di questo testo: la perfetta conciliazione tra l’essere pienamente dentro un genere - il romanzo - e la capacità di spiazzare rispetto ad ogni aspettativa. Il suo essere un’esaltazione della poesia insita nelle cose e al tempo stesso il racconto sobrio della tristezza più struggente.
Sara Baume, nata nel Lancashire e cresciuta in Irlanda, con questo suo esordio è stata finalista al Costa Award, al Guardian Award, al Desmond Elliott Prize e al Los Angeles Times Book Prize. Come a dire che la qualità della sua scrittura non è passata inosservata. Una voce malinconia e leggera, in egual misura. Come vi riesca, è il suo valore.
Un esempio per darne la prova : “Mia madre è morta. L'ho sempre intuito dalla smorfia sulla faccia di mio padre, dalla sua freddezza sostanziale, che è morta e gli ha lasciato in eredità una tragedia da usare per definirsi per il resto della vita. E me, naturalmente”. Basta una frase - gli ha lasciato in eredità una tragedia per definirsi - per dire di famiglia, di un lutto, e dell’origine del tutto.
Ed ancora: «Ho sempre dovuto combattere con le mie mani. Non so mai esattamente che farne quando non le agito. Ho la pessima abitudine di stuzzicare la pelle indurita intorno alle unghie, la spingo giùlentamente finché non diventa una pipita anemica. Quando mi muovo fuori, nel mondo, agito le mani per non stuzzicarle e quando sono fermo le sovrappongo sulla pancia e premo forte. Per trattenermi intreccio le dita. Quando sono solo e immobile, in casa, evito di tormentarle fumando. Con una certa luce e a una certa angolazione, su certe superfici riflettenti, sono un vecchio. Sono un vecchio nel parabrezza della macchina e sul dorso del cucchiaio. Sono un vecchio nella finestra del soggiorno dopo che ha fatto buio e negli specchi stretti sui due lati del frigo alto dell'alimentari. Quando vado a chiudere le tende o infilo una mano per prendere il latte o la margarina o lo yogurt ai frutti di bosco, sono un vecchio».
Ecco a voi Ray, il protagonista. In apertura Ray non è altro che un cinquantenne che sceglie un cane, per tenere lontani i topi (sapremo solo alla fine perché topi). Poi scopriamo che la relazione con questa animaletto è unica ed esclusiva.
Perché Ray è un uomo che: «Ovunque vada è come se avessi addosso una tuta spaziale che mi separa dagli altri. Un'enorme tuta scintillante che nasconde quanto mi sento piccolo e spento dentro. So che tu non puoi vederla; non la vedo nemmeno io, ma quando barcollo e strascico i piedi e agito le mani per la strada, gli uomini si spostano nel canale di scolo per evitare di sfiorare la mia tuta spaziale invisibile». Che vive nella vecchia casa del padre: «La casa di mio padre», dice sempre Ray, non la mia casa. E qui sapientemente, con questo “mio”, la Baume ci lascia un indizio. «La faccia è di un orrido rosa salmone e il tetto è un pendio artigianale, rasato e deformato dalla spinta del terreno sottostante». Il mondo di Ray è tutto nella suo sguardo, nella sua testa, nella sua voce, nel racconto che ne fa al suo cagnolino. Un mondo fatto di oggetti. La solitudine è segnata dall’assenza quasi totale di individui, soprattutto nella prima parte. In passato c’è stata una “zia” che in realtà era una specie di tata a cui il padre affidata Ray quando andava al lavoro. Nella progressione del suo soliloquio scopriamo quale bambino “speciale” fosse stato Ray. Come l’animale che sceglie e che sceglie di chiamare UNOCCHIO, inquanto privo di un occhio: «C'è qualcosa di splendido nel modo in cui te ne stai seduto in quella bava viscosa, che ti dona. Lo splendore ti dona».
Noi non conosciamo le ragioni per cui Ray è isolato al punto da non frequentare la scuola, distante. Niente amici, la vita osservata dalla finestra. Da bambino e da adulto, nessun lavoro. Nè amicizia, nè amore. Altra prova della capacità della Baume di controllare la materia che ha scelto di mettere sul tavolo. Non serve che ci spieghi nulla, perché ognuno di noi non è che racconti a sé stesso ciò che è, come fosse un medico che deve compiere una diagnosi.
Quando UNOCCHIO cerca di azzannare un altro cane del paese, Ray pur di non rinunciarvi decide di partire. Comincia così una vita randagia che progressivamente alza la tensione della narrazione. E se siamo rimasti con l’anima appeso alla madre misteriosamente scomparsa (è morta sì ma come? Perché) e ci eravamo fatti l’idea di un padre, forse anaffettivo ma mite, incapace ma tutto sommato un buon uomo («Ti ho mai parlato del mio compleanno? Ne ho avuto soltanto uno, ma è successo più o meno in questo periodo, d'estate, in una giornata di temporali a cui è seguita la prima apparizione di un sole vero. Mi pare che fosse un mercoledì. Poco dopo la morte della zia, e quindi dev'essere stato quando ho compiuto dieci anni. Mio padre non era andato al lavoro. Aveva mangiato la sua crusca e le sue salsicce. Poi mi aveva detto che era il mio compleanno e mi aveva portato allo zoo, o forse era uno zoosafari? Forse. Allo zoo o allo zoosafari, reggeva in alto l'ombrello chiuso. Sentivo le gocce di pioggia infradiciarmi le maniche e anche se era estate, anche se la pioggia era tiepida, sulle braccia mi era venuta la pelle d'oca, come un gelido eczema»), scopriamo che una sera quando Ray era ancora piccolo fece un capriccio di quelli che fanno tutti i bambini, solo che...: «Strillavo, gridavo, singhiozzavo e piagnucolavo perché avevo lasciato cadere Mr Buddy sul pavimento e non riuscivo a raccoglierlo. A un tratto mio padre tirò il freno a mano e si fermò. Si girò e mi sollevò dal sedile posteriore. Poi mi piazzò su un ciuffo d'erba sul ciglio della strada e se ne andò. Piccolo com'ero, ricordo di aver pensato che quello non era il genere di cose che un padre dovrebbe fare. Ricordo di aver pensato che sarebbe tornato presto, che sarebbe tornato di sicuro. Ma lui non lo fece».
Da questo punto in poi intuiamo che quello che ipotizzavamo come un evento naturale, ovvero la morte del padre, si caricherà di altri accenti. Siamo nel dramma ma non c’è né pathos né tragedia, e ciò in questa narrazione è un pregio. Sara Baume è davvero maestra nel raccontare la tenerezza che è anche alienazione. Perfetto il modo “infantile” in cui Ray si rivolge a UNOCCHIO. E la sua bontà che si trasforma nella perfidia di tutti gli arrabbiati («I miei pensieri sono pieni di rancore e di disastri»).
Ray ci racconta la tristezza delle facce stroppicciate che, all’alba o la sera tardi, scorgiamo appoggiate ai vetri degli autobus o delle metropolitane; facce gialle, non pallide, gialle. Con i capelli che sanno di fumo di sigaretta sedimentato e le borse sotto gli occhi ispessite dalla nicotina.
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