La bellezza al lavoro: la selezione Hr valuta ancora l’aspetto fisico?
Nonostante la crescente attenzione ai temi dell’inclusività si afferma silenziosamente un criterio di scelta che minaccia la piena uguaglianza
di Lorenzo Cavalieri *
4' di lettura
Nella mia esperienza di consulente mi capita di frequentare ambienti di lavoro di tutti i tipi. Negli ultimi anni sto maturando la sensazione sempre più precisa che i luoghi di lavoro si stiano popolando in modo sistematico di persone di bell’aspetto, anche in uffici o dipartimenti che non prevedono un rapporto diretto con il pubblico e con i clienti. Si tratta senz’altro della manifestazione esteriore di una società caratterizzata da una grande attenzione al benessere fisico e alla cura del corpo, fin da bambini. Se tutti siamo più belli e curati di com’erano i nostri nonni, allora anche i luoghi di lavoro saranno animati da un numero ovviamente sempre più alto di persone dall’aspetto piacevole.
Tuttavia le proporzioni di questa “tendenza al bello” nel mondo aziendale lascia pensare che ci sia qualcosa di più, che cioè oltre ad un riflesso della società, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio criterio di valutazione delle candidature. Certamente non sarebbe una novità. Da sempre il cosiddetto “bell’aspetto” è considerato dai selezionatori un plus, soprattutto per i ruoli di “vetrina”, di contatto diretto con i clienti. Fino a non molti anni fa la dicitura “di bell'aspetto” qualche volta compariva addirittura negli annunci di lavoro.
La letteratura scientifica che da alcuni anni si è concentrata sul rapporto tra bellezza e successo professionale (molto interessanti gli studi di Daniel Hamermesh e Jean Francoise Amadieu) dimostrerebbe empiricamente come “La bellezza paga”, titolo molto esplicativo di un saggio di successo: chi ha avuto in dono un corpo avvenente avrebbe più possibilità di trovare lavoro e ottenere promozioni, guadagnerebbe in media più dei suoi colleghi, avrebbe più soddisfazioni quando prova a mettersi in proprio, addirittura disporrebbe di un più agevole accesso al credito.
Al di là delle ricerche accademiche l’impressione epidermica che si ricava osservando le scelte di imprenditori, manager e dipartimenti HR è che il criterio di selezione fondato sulla gradevolezza dell’aspetto fisico non solo esista, ma conti sempre di più, sebbene ovviamente sia necessario nasconderlo a tutti i costi. Nell’epoca che ha dichiarato guerra a tutti i tipi di discriminazione che non siano basati su capacità e competenze, per un’azienda sarebbe evidentemente inaccettabile ammettere che l’aspetto fisico abbia un ruolo nei propri processi di reclutamento.
Il paradosso è che più cresce l’attenzione ai temi dell’inclusività più si afferma silenziosamente un criterio di selezione che minaccia la piena uguaglianza delle opportunità. In alcune multinazionali il fenomeno arriva a sfiorare il ridicolo: camminando per i corridoi si può apprezzare il rispetto impeccabile delle policy di diversity, ma anche constatare che la maggior parte dei manager sembra uscito dal casting per una sfilata di moda. Quando si affronta questo argomento le aziende per togliersi dall’imbarazzo utilizzano tipicamente tre argomentazioni: “Non è vero che siamo tutti fotomodelli”; “Non è mica una colpa essere belli. Per noi contano solo le capacità. Se poi uno è anche bello non possiamo farci niente”; “Esistono tanti modelli di bellezza e bisognerebbe capire cosa significa essere belli”.
Sono obiezioni insuperabili, ma che non convincono completamente. Per confrontarsi serenamente e in modo costruttivo su un tema così delicato bisogna partire da due chiavi di lettura:
1) L’esistenza di un bias, di una inconsapevole distorsione della percezione per cui una persona di bell’aspetto ci appare, ad un primo impatto superficiale, portatore di valori positivi che vanno oltre il puro dato estetico. Nessuno sceglie come collega una persona bella ma incapace, ma tra due soggetti mediamente capaci, senza accorgercene, tendiamo a scegliere il bello, non tanto per assecondare un’attrazione (fenomeno che peraltro purtroppo soprattutto in contesti aziendali non strutturati continua ad esistere), ma perché sulla base del cosiddetto “effetto alone” associamo il suo aspetto piacevole ad una serie di pregiudizi positivi: se è bello ci sembra più elegante e curato di quello che magari è realmente, e questo ci porta a percepirlo come più educato di quello che in realtà è, e questo ci porta a vederlo più affidabile, equilibrato, onesto, eccetera. Un cerchio concentrico (un alone per l’appunto) di deduzioni per cui a partire dall’aspetto piacevole ci troviamo a pensare che una persona abbia un valore e uno spessore complessivo superiore a quanto abbia effettivamente.
2) Nella società del narcisismo, dei video, dei social, dei selfie allo specchio, delle foto profilo, dei filtri e dei ritocchi la nostra sensibilità al valore delle immagini è stata irrimediabilmente drogata. Soprattutto chi osserva da vicino le nuove generazioni si rende conto di come si sia diffusa una perversa associazione tra il “bello”, il “seguito” (inteso come participio passato del verbo seguire) e il “bravo”. Niente di nuovo direbbe un professore di liceo classico: l’eroe omerico è Kalos kai agatos (bello per fattezze e armonia nel corpo e magnanimo e generoso nello spirito).
Oggi tendiamo a non chiederci più se la bellezza abbia in qualche modo influenzato la bravura o viceversa, né se è un caso che il sindaco, la cantante, lo youtuber o la giornalista che apprezziamo siano anche di bell’aspetto. Prendiamo atto inconsapevolmente che questi due aspetti tendenzialmente stanno insieme.Solo se si radicherà in ciascuno di noi la consapevolezza di queste due sottili dinamiche di percezione potremo insieme limitare la portata di questo principio di “selezione per bellezza”, che è antico come il mondo ma che è ampiamente accelerato dal narcisismo digitale del nostro tempo. Il rischio è che il fenomeno assuma dimensioni sempre più rilevanti e quindi discriminanti.
Poiché è molto difficile contenere questo meccanismo attraverso previsioni normative e policy formali (sarebbe molto complicato definire oggettivamente cosa significa “bell'aspetto”) non ci resta che lavorare sulla dimensione della consapevolezza individuale. Quando selezioniamo un collega per un’assunzione o una promozione chiediamoci due volte “Quanto la mia decisione è condizionata dalla mia percezione estetica?”. “Quanto si è creata in me una sottile preferenza per il candidato che sfoggia sul suo profilo LinkedIn una smagliante foto da “book” rispetto al collega che ha invece deciso di caricare un’immagine poco accattivante o addirittura di non caricare alcuna immagine personale?”.
La posta in gioco non è banale. Non si tratta soltanto di difendere lo spettro di opportunità di chi non è avvenente e non verrebbe mai scelto in un casting, ma anche di tutelare chi per mille motivi ha deciso di essere geloso della propria immagine e di non esporla ad ogni piè sospinto, soprattutto nell’arena del web.
* Managing director della società di formazione e consulenza Sparring
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