La Biennale guarda all’umanesimo: artisti al centro, tra resilienza e libertà
di Silvia Sperandio
5' di lettura
VENEZIA - Una nube bianca di vapore che si dirada, lasciando intravedere un uomo sospeso a mezz'aria sullo sfondo rosso acceso: la figura sembra cadere al rallentatore, gli occhi chiusi e le braccia spalancate. Il video Suspension dell'artista argentino Sebastian Diaz Morales, metafora della condizione umana nella postmodernità, ben rappresenta il clima di dinamica sospensione che si respira in questa 57esima edizione della Biennale di Venezia curata dalla francese Christine Macel e intitolata “Viva Arte Viva”.
Tra il fervore delle pratiche e il tempo sospeso della creazione, la Mostra, ispirata al neoumanesimo, sembra indicare un equilibrio possibile nella crescente complessità del mondo.
In una situazione globale di conflitti e diseguaglianze sociali, l'arte «non è il modo e neanche il luogo per cambiare il mondo - premette Christine Macel - mentre è il luogo dove possiamo ri-immaginare il mondo. Sono convinta che l'arte possa aiutarci a salvare la vita».
In questa manifestazione, che «vuole rappresentare la complessità della situazione attuale» l'artista artifex conquista dunque il centro della scena, è il novello sciamano che indica quale direzione intraprendere. «Crediamo che gli artisti possano aiutarci a rivitalizzare il nostro pensiero, il nostro cervello, il sentimento» spiega il presidente della Biennale Paolo Baratta.
Gli artisti partecipanti, provenienti da 51 paesi, sono 120; e di questi 103 sono presenti per la prima volta: l'intera Mostra internazionale – un continuum che va dai Giardini all'Arsenale, scandito da nove Padiglioni transnazionali - è dedicata alla scoperta di un variegato universo di pratiche artistiche, fino a scandagliare l'anima nelle pieghe più intime.
L'arte interroga l'arte. A cominciare dal confine sottile tra
C'è un divano letto anche nella prima sala della mostra, ed è parte integrante dell'atelier dell'americana Dawn Kaspers che ha trasferito qui alla Biennale il suo luogo di lavoro: tavoli, colori e strumenti musicali. È la performance-installazione The Sun, the Moon and the Stars: nel suo “studio nomade” l'artista alterna rumorose jam session con amici e visitatori a pause di totale riposo, mentre il territorio dell'arte si espande fino ad abbracciare la quotidianità.
La vita irrompe nell'arte anche con il progetto dell'artista danese Olafur Eliasson, Green light – An artistic workshop, concepito come una “piattaforma” che coinvolge una quarantina di rifugiati e richiedenti asilo del territorio veneziano. I migranti, donne e uomini, giovani e adulti sono invitati a fabbricare dei moduli di lampade a luce verde e lavorano febbrilmente seguendo le indicazioni di un tutor. L'intervento evidenzia la potenzialità positiva del “saper fare” ed è destinato a raccogliere fondi da devolvere a tre centri di accoglienza.
In apparente, ironica antitesi è il lavoro The Artist is Asleep (1996), dei concettuali Yelena Vorobyeva e Viktor Voribyev, che afferma quanto sia importante per l'arte la totale “improduttività”. In una stanza qualcuno dorme in un letto; alla parete una tappezzeria e una scritta a mano in stampatello: “Non si può fare altro che aspettare che il masso dormiente si muova, si sfreghi gli occhi e si alzi”. L'artista addormentato è in realtà il vero visionario, che prepara la nuova creazione intesa come rinascita.
La mostra curata da Christine Macel corre veloce, svelando i segreti più intimi fino a quelli più oscuri. I momenti di gioia e serenità, la paura della tortura, della sofferenza e della morte, ma anche il senso della collettività e le riflessioni sulla religione: gli artisti raccontano il loro mondo attraverso oggetti, fotografie, video e performance. Ed è un percorso di scoperte e di pura poesia, ad esempio nella sala di Kiki Smith: i ceselli su preziosa carta di seta himalayana narrano la sua mitologia femminile, un universo di stelle di vetro e donne che piangono le lacrime del mondo.
Un'atmosfera di dinamismo sospeso si respira anche tra i Padiglioni nazionali, in totale 86, in parte distribuiti negli spazi storici dei Giardini e in parte disseminati nella città lagunare. Tre le new entry: Antigua e Barbuda, Kiribati e Nigeria.
Tra i più interessanti Israele: il desiderio di fermare il tempo anima l'installazione multimediale Sun Stand Still (Sole fermati) dell'artista di Tel Aviv Gal Weinstein che evoca l'atmosfera post bellica di un bunker abbandonato e ammuffito. L'odore acre nelle stanze è quello di lana di acciaio, colla, muffe. Al piano superiore, la gigantesca opera El Al, realizzata con rivestimento morbido di cuscini e lana di ferro, è una sorta di “traccia” materiale della forza propulsiva di un missile.
Fermare il tempo o guardarlo scorrere al di là del vetro, sotto i piedi o dentro la gabbia. NelPadiglione della Germania, Leone d'oro per la miglior partecipazione nazionale con il progetto “Faust” di Anne Imhof, il pubblico osserva giovani performer gattonare nello spazio ricavato sotto il pavimento trasparente.
Una prigione di vetro: ci sono performer sul tetto, uno accucciato in una gabbia esterna insieme a cani dobermann, mentre un sentimento di ansia impotente si impadronisce dei visitatori. Lo spazio bianco, asettico e geometrico è curato da Susanne Pfeffer.
Un’atmosfera totalmente diversa si respira nel Padiglione della Francia, trasformato in un mega studio di registrazione con pareti in legno, dove alcuni musicisti provano senza soluzione di continuità: pianoforte, voce, batteria, e tanti strumenti a disposizione, mentre il tempo senza tempo della musica scorre al di là di ogni esigenza produttiva o di mercato.
Anche l'installazione di Jana Zelibska intitolata Swang Song Now (Repubblica ceca e Repubblica slovacca), è una metariflessione sul tempo, con dodici cigni bianchi sullo sfondo di una mega proiezione del mare veneziano, il canto intermittente dei cigni e due video di una ragazza adolescente.
È un messaggio positivo, infine, quello lanciato da Mark Bradford nello spazio degli Stati Uniti. Tomorrow is Another Day, domani è un altro giorno, si intitola il suo progetto, disegnato su misura per uno spazio - identico al padiglione veneziano - che l’artista ha ricreato appositamente a Los Angeles. Anche qui il tempo è protagonista, tra soffitti crollati e archeologie dal sapore bizantino. Nel video Niagara, del 2005, un uomo nero ripreso di spalle cammina per strada, ma non c'è corrispondenza tra la distanza percorsa e il tempo impiegato. Bradford afferma così la priorità assoluta dell'azione individuale e la fiducia nella capacità di riscatto sociale dell'arte. A Venezia l’artista ha fondato una piattaforma sociale per lavorare con i detenuti e aiutarli ad essere autosufficienti. Anche questo è un modo per sostenere la vita.
silvia.sperandio@ilsole24ore.com
Biennale Arte 2017
“Viva Arte Viva”
Venezia
Fino al 26 novembre
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