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La Brexit e il futuro dei conservatori

Il 23 giugno del 2016, una maggioranza risicata di elettori britannici (51,89 per cento) votò per l’uscita del Regno Unito dalla Unione europea (Ue). Fu un terremoto.

di Sergio Fabbrini

(IMAGOECONOMICA)

3' di lettura

Il 23 giugno del 2016, una maggioranza risicata di elettori britannici (51,89 per cento) votò per l’uscita del Regno Unito dalla Unione europea (Ue). Fu un terremoto. Uno dei più importanti Paesi europei votò per lasciare un’organizzazione nella quale era entrato nel 1973, interrompendo e rovesciando un processo storico che era andato, fino ad allora, nella direzione opposta. Brexit celebrò il rifiuto delle integrazioni sovranazionali, divenendo causa ed effetto della ripresa vigorosa del nazionalismo in Europa, in America (qualche mese dopo venne eletto Donald Trump alla presidenza) e nel mondo (dal Brasile all’India). Anche in Italia, leader nazionalisti della destra radicale (come Matteo Salvini) affermarono trionfanti che era «finalmente giunto il momento di riprendere il controllo della nostra sovranità». Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli dovevano dormire in pace. Davvero?

Sette anni dopo il referendum, le cose sono andate diversamente. L’uscita del Regno Unito dall’Ue si è rivelata un fallimento. L’economia britannica è cresciuta meno delle maggiori economie dell’Eurozona e rischia di scivolare verso la recessione nel quarto trimestre 2023. Secondo l’Ocse, solamente la Russia ha fatto peggio. Nel 2022, il Regno Unito era l’unico Paese del G7 la cui crescita era al di sotto di quella pre-pandemica. Secondo la London School of Economics, il tasso di inflazione britannico è molto più alto di quello dell’Eurozona: tra il dicembre 2019 e il marzo 2023 il prezzo dei beni alimentari è cresciuto del 25 per cento (mentre sarebbe stato inferiore all’8, senza Brexit). Era stato promesso che, uscendo dall’Ue, il Regno Unito avrebbe risparmiato soldi. Secondo il Wall Street Journal, Brexit è invece costato, alle famiglie britanniche, 6,95 miliardi di sterline in più. Concludendo un’indagine tra i maggiori economisti del Paese, il Financial Times ha scritto che “è unanime il consenso che Brexit abbia notevolmente peggiorato la performance economica del Paese”. Oggi, il Regno Unito è non solo più povero (si stimano cinque milioni di bambini poveri per la fine di quest’anno), ma anche più isolato. L’8 giugno scorso, il premier britannico Rishi Sunak era andato a Washington D.C. per siglare un accordo commerciale con l’America. E’ ritornato a casa con le tasche vuote. Ma soprattutto svuotato è il conservatorismo che aveva promosso Brexit.

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I politici nazionalisti hanno la memoria corta. Oggi, nessuno di essi (a partire dall’Italia) rievoca, tanto meno celebra, Brexit, come fecero sette anni fa. Anzi, i costi (economici, sociali, politici, culturali) di Brexit sono stati tali che, dopo il 2016, i maggiori leader nazionalisti hanno cercato di conciliare il loro nazionalismo con il processo di integrazione. Un tentativo definibile come sovranismo. Il nazionalismo si basa sull’indipendenza, il sovranismo è costretto a riconoscere che l’indipendenza è irrealizzabile, in un mondo di interdipendenze. Se consideriamo i leader nazionalisti con responsabilità di governo, come Viktor Orbán, Mateusz Morawiecki, Matteo Salvini e Giorgia Meloni (ma anche Marine Le Pen, che ottenne il 41,46 per cento dei voti nelle presidenziali dell’anno scorso), nessuno di loro propone più di uscire dall’Ue. Però, mentre il nazionalismo indipendentista offriva loro una base culturale coerente, non si po’ dire altrettanto del sovranismo. Quest’ultimo è un’ideologia al negativo. I sovranisti sono “contro” (la Corte europea di giustizia, la Commissione europea, il Parlamento europeo), ma non precisano che Europa vogliono. Non sapendolo, si stanno specializzando nell’uso del potere di interdizione a Bruxelles. Orbán pone il veto a ogni pacchetto di sanzioni agli oligarchi russi, Giorgia Meloni pone il veto all’approvazione di un emendamento al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), entrambi lo fanno a prescindere e un po’ pateticamente. Nella politica interna, poi, si sono abbarbicati al prefisso “anti”: ANTI-tasse (senza spiegare come può funzionare uno Stato senza risorse fiscali), ANTI-immigrati (senza spiegare come può funzionare un’economia senza lavoratori), ANTI-diritti (senza spiegare come può funzionare una democrazia che non riconosce le libertà individuali). Senza una visione in positivo, i sovranisti conservatori si limitano a soddisfare interessi corporativi (purché li votino). Per tenerli insieme, usano il cerotto dell’“Ungheria cristiana”, della “Polonia cattolica” o dell’“Italia etnica”, ma è dubbio che possa funzionare. Il sovranismo di quei leader è la combinazione culturale di opportunismo (bisogna stare dentro l’Ue) e corporativismo (sosteniamo chi ci vota), una combinazione che non può promuovere la formazione di una cultura conservatrice alternativa al liberalismo. Di cui una democrazia interdipendente avrebbe bisogno. Brexit dimostra gli esiti drammatici che provengono dall’incontro tra malafede dei politici e ignoranza dei cittadini. Brexit dimostra la debolezza culturale del nazionalismo, cui il sovranismo cerca di rimediare, senza essere capace di farlo. La forza elettorale non è un sostituto della debolezza culturale. Oggi non c’è una cultura conservatrice che sappia conciliare nazionalismo di destra e necessità dell’integrazione. Un’incapacità evidente anche nel nazionalismo di sinistra (che però non è al potere in nessun Paese europeo). Comunque, se si considera il Brasile di Lula, Atene piange ma Sparta non ride.

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