«Clandestini», Lega condannata per manifesti discriminatori
Per il movimento la condanna è stata confermata in Cassazione per alcune affissioni contro i richiedenti asilo
di Patrizia Maciocchi
I punti chiave
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«È fermo convincimento di questa Corte, poi, che un termine come quello di cui si discute («clandestini») abbia assunto concretamente, nell’utilizzo corrente, un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa». Con queste motivazioni la Cassazione (sentenza 24686) ha confermato la condanna della Lega Nord a risarcire le associazioni che si occupano di immigrazione, per 70 manifesti, con i quali erano stati tappezzati i muri di Saronno in occasione dell’accoglienza di 32 richiedenti asilo.
La Suprema corte, dopo aver sottolineato l’uso improprio del termine clandestino nei confronti di chi - esercitando un diritto fondamentale - chiede la protezione internazionale, ne stigmatizza l’uso in generale, per il significato che ha ormai assunto e il clima di odio e di ostilità che crea. «Ciò non significa - scrivono i giudici di legittimità - che esso non possa venire utilizzato nella sua originaria accezione strettamente lessicale, ma che il contesto della struttura sociale in cui esso si cala esige comunque, da parte di chi lo evochi, un’estrema attenzione».
Una condanna che - avverte la Cassazione - è in linea con le norme sovranazionali e con la giurisprudenza degli eurogiudici che vieta qualunque discriminazione basata sull’etnia.
Nei manifesti
Nei manifesti gli indesiderati «clandestini», ai quali andavano pagati «vitto, alloggio e vizi» erano messi in contrapposizione con gli abitanti del comune ai quali «tagliano le pensioni ed aumentano le tasse». Usurpatori dunque, venuti per drenare risorse economiche. Un tipo di messaggio che la Suprema corte considera lesivo della dignità dei cittadini stranieri e destinato a creare intorno a loro un clima ostile, «umiliante ed offensivo, per motivi di razza, origine etnica e nazionalità». Ragioni che inducono ad escludere il legittimo esercizio della critica politica e la libera manifestazione del pensiero. «Se è vero, infatti, che uno dei valori fondanti della Costituzione repubblicana - si legge nella sentenza - è quello della pari dignità delle persone, è anche vero che il termine di cui si discute può facilmente prestarsi (e indurre), specie se inserito in un contesto verbale come quello del manifesto in questione, ad abusi i quali, creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo, si risolvono appunto in un comportamento discriminatorio».
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