La Città Eterna, ma fino a quando Roma Capitale?
di Andrea Goldstein
5' di lettura
Noi Italians, qualche volta lo facciamo meglio, quasi sempre lo facciamo strano. Per esempio abbiamo una capitale che ha caratteristiche molto differenti rispetto alle sue omologhe negli altri Paesi, del G20 e altrove.
Anche se Roma venne designata “capitale morale” il 17 marzo 1861, al momento della proclamazione del Regno d’Italia, ci vollero più di dieci anni prima che il Re vi ci potesse trasferire. Prima particolarità, la Città Eterna non era la capitale dei vincitori, come Berlino per il Reich dei prussiani, ma dei vinti. Che si ritirarono sdegnosamente oltre Tevere, ma che non hanno mai smesso di avere voce in capitolo nella gestione della capitale di un altro Stato sovrano. Altra particolarità, dentro Roma sta la Città del Vaticano, l’unica enclave al mondo con queste caratteristiche.
Cos’altro definisce una capitale, a parte appunto il simbolismo che riveste per i vincitori del conflitto che sempre è all’origine di una nazione? Nel 1939, un geografo americano, Mark Jefferson, formulò la celebre “Law of the Primate City”, secondo cui in tutti i Paesi «the largest city shall be super-eminent, and not merely in size, but in national influence». Il motivo va rintracciato nelle economie di agglomerazione: solo in certe località ci sono eccezionali opportunità lavorative (grazie alla produttività del territorio, all’accesso alle infrastrutture di trasporto, alla capacità di trasformare le idee in ricchezza) e di consumi, in particolare di beni e servizi sofisticati. Anche se non c’è un decalogo universale, alcune di queste caratteristiche ricorrono nella scelta della capitale. Nella stragrande maggioranza delle nazioni per cui Jefferson disponeva dei dati, la capitale negli anni 30 era effettivamente la primate city: le eccezioni erano Washington, Ottawa e Berna, cioè stati federali, oltre che Madrid la cui popolazione era del 9% inferiore a Barcellona (che, non a caso, dimostra tuttora crescenti aneliti indipendentisti).
E poi c’è l’Italia. Nel 1914, dopo 43 anni come capitale, massicci arrivi di funzionari pubblici e qualche timido tentativo di industrializzazione, Roma occupava ancora la terza posizione tra le città italiane, dietro Napoli e Milano. Nel 1936 il margine di preminenza urbana in Italia era il più basso tra i Paesi studiati da Jefferson (la prima città superava la seconda di un misero 4%, rispetto a 86% per il Regno Unito, o 68% per Germania e Francia). Roma ha tuttora caratteristiche economiche che la distinguono profondamente dalle capitali dei principali Paesi europei. Intanto è relativamente piccola: riprendendo Jefferson, fatta 100 la popolazione della capitale, nel 2014 la scala della seconda e terza città (Milano e Napoli) è 53 e 41, mentre in Francia i valori sono 37 e 22 e nel Regno Unito addirittura 13 e 11. Inoltre l’assenza di un solido retroterra economico-finanziario (ma forse pure culturale, dato che, con l’eccezione di Rai ed Espresso-Repubblica, i media stanno ormai più a Nord), ha impedito a Roma di restare la principale World City italiana. I geografi dell’università di Loughborough considerano Milano una metropoli Alpha, subito dopo le mega-capitali della globalizzazioni che sono Parigi e Tokyo, New York e Londra, mentre Roma si merita un ben più modesto Beta+. Roma non è stata capace neanche di ritagliarsi uno spazio globale nel settore di cui è in teoria capitale del sistema Onu e cioè l’agricoltura e l’alimentazione. L’ardito sorpasso di Milano nelle statistiche del turismo è poi uno schiaffo immeritato a Marco Aurelio e al Borromini, o forse uno ben meritato a chi non ha saputo valorizzarli come si deve.
Il combinato disposto di tutto ciò è che, a differenza delle sue omologhe, Roma non si è (quasi) mai dimostrata capace di fare da traino alla modernizzazione e allo sviluppo dell’Italia, come del resto rivelava già nel 1955 l’inchiesta-scandalo sull’Espresso. Certo, ormai la nazione ha trovato gli anticorpi per sopravvivere a una Capitale che forse è meno corrotta che ai tempi del sindaco Rebecchini, ma difficilmente è più efficiente. I titoli di giornale delle ultime settimane suggeriscono che poco sembra essere mutato da quando Manlio Cancogni denunciava l’indebitamento del Comune, il cattivo risultato di gestione delle aziende autonome, come l’Atac, oppure le perdite d’acqua, l’invecchiamento delle condotte e la rottura di molte fognature dovute all’incuria dell’amministrazione.
Che fare allora? Si può ovviamente far finta di niente, e in Italia sarebbe la reazione istintiva, oppure considerare i problemi attuali come un semplice incidente della congiuntura e attendere tempi migliori per realizzare uno grande progetto strategico di sviluppo in cui coinvolgere attori pubblici e privati. Si può anche ricordare che Roma, al di là di tutte le altre caratteristiche già menzionate, si trova al centro della Penisola, quantomeno dal punto di vista geografico (non certo economico, le sette Regioni del Nord e l’Emilia-Romagna pesano per 55,5% del Pil nazionale, per cui il baricentro economico italiano dovrebbe stare probabilmente a Bologna). Trasferire altrove la capitale potrebbe essere interpretato come un segno (ulteriore) che l’Italia si disinteressa del suo Meridione.
Meglio però valutare con freddezza benefici e costi per Roma dell’essere Capitale e per l’Italia di avere questa strana capitale.
Non ci sono cifre precise sull’incidenza dell’occupazione nell’amministrazione statale e nelle ex partecipazioni statali sul mercato del lavoro romano, ma è sicuramente una parte importantissima, probabilmente superiore al 15% che si stima per l’Île-de-France. Ancora più se si considera l’indotto dei servizi più o meno qualificati, dai lobbisti alle scuole Internazionali frequantati dai diplomatici. In teoria, seguendo quanto scritto da Johann Heinrich von Thünen nel 1826 e Paul Krugman nel 1991, tutto questo dovrebbe tradursi in ulteriore crescita (una città abitata da gente colta e ricca rende costoro ancora più efficienti e attrare nuove risorse). In pratica, l’endemica debolezza economica di Roma suggerisce che gli elementi succitati creano sopratutto importanti diseconomie da congestione, come il traffico e l’inquinamento, e inducono i romani e chi vi migra a cercare un impiego nel settore pubblico e nelle professioni protette, piuttosto che nei settori ad alta tecnologia e creatività che definiscono una World City.
Per l’Italia il beneficio principale consiste verosimilmente nell’immagine della Roma felliniana e onirico-godereccia che tuttora simboleggia l’Italia per molti. Per chi invece vuole promuovere la narrativa della seconda potenza industriale europea, o dell’eccellenza della ricerca scientifica capace di attrarre talenti da tutto il mondo, rifiuti e scioperi, processi e guano, rendono il lavoro più difficile. Paradossalmente, l’unico vero beneficio consiste nell’evitare quell’immenso effetto-risucchio che capitali come Londra e Parigi svolgono altrove, drenando quasi inesorabilmente i migliori giovani a scapito di alter città – mentre in Italia sono i romani iper-qualificati che fuggono a piè levato.
Questa nota non va presa troppo sul serio, ma un po’ sì. Non si tratta necessariamente di far sorgere dal nulla l’equivalente di Brasilia, anche perché non abbiamo un sertão da riempire; oppure di scegliere tra le città esistenti quella che meglio rappresenta l’identità nazionale e contemporaneamente può ambire al ruolo di primate city (anche se resta valida la definizione che Giovanni Verga diede nel 1881 di Milano come «la città più città d’Italia»). Ma quantomeno varrebbe la pena pensare alle scelte localizzative dell’amministrazione pubblica in chiave di ribilanciamento dei centri di potere, di efficienza sistemica e di sviluppo sostenibile. Iniziando magari da scelte urgenti come quella per un ente piccolo, ma tutt’altro che insignificante, come il Consiglio Nazionale della Produttività che la Commissione europea attende entro il 20 marzo 2018.
loading...