Opinioni del Sole

La città laboratorio vista dallo studio

di Stefano Salis

3' di lettura

«La città laboratorio, la città fiera, la città studio, la città scuola, la città mondo, la design city è quella piattaforma di cultura materiale dove la distinzione di luoghi e l’articolazione dei flussi, di merci e saperi, di sfide e tradizioni, di economie e stili continua a spingere i privati a svolgere una funzione pubblica e istruisce la collettività a promuovere azioni votate alla qualità, alla convivenza, alla possibilità, al servizio, al bene comune per una città capitale internazionale del design». Così Marco Sammicheli, esperto di design, curatore di mostre, autore e oggi co-curatore con Anna Mainoli di questo importante volume, The Design City. Milano città laboratorio (Forma Edizioni, pagg. 416, 98 euro), conclude la sua “arringa” nella prefazione al libro. In effetti, tutti i motivi ricordati concorrono a costruire lo status - che in questi anni si è rinforzato - di città del design. Ma non basterebbero ancora, queste parole, se dietro non ci fossero – ancora più che gli oggetti, le architetture, la solenne festa mobile del Salone che ogni anno celebra in aprile la sua esistenza sforzandosi di investire continuamente nel successivo - le persone. E cioè i designer (e, d’altra parte, ovviamente, i produttori).

Ed è dunque su costoro che si concentra il libro – d’ora in poi fondamentale biglietto da visita anche per far capire all’estero Milano –, bellissimo nella raccolta fotografica e dal concept semplice: cinque sezioni accolgono con una scansione cronologica “lasca” (c’è chi ha attraversato diverse epoche) la comunità variegata dei designer milanesi, «includendo in questa categoria coloro che dal secondo dopoguerra alla contemporaneità hanno aperto uno studio a Milano, oppure scelto la città come crocevia imprescindibile per la loro carriera». Di più, va detto, che la scelta è di concentrarsi sul design-architettura propriamente detto (escludendo per esempio la grafica, quindi niente modernità di Bob Noorda, che pure ha dato un segno grafico tuttora vivo con la metropolitana, e dimenticando un genio come Piero Fornasetti e suo figlio Barnaba) e le schede di ciascun designer si concentrano su un formulario-tipo per l’intervista, partendo da un dato oggettivo determinante: lo studio.

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Osservando gli studi, o le case studio dei creativi, emerge una mappatura originale del “fenomeno design” in città, e si traduce, anche, in indicazioni di prima mano su cosa vedere, sia come luoghi fisici, sia come effetto “percepito” della complessa realtà di una «piccola metropoli densissima», per dirla con Stefano Boeri.

Ebbene, se è comune la ammissione che il ruolo della città si sia rinforzato dopo l’Expo (verissimo), e che ci sono luoghi “sacri”, come (su tutti) la Villa Necchi o la Triennale dove il design è lì, corpore praesenti, o come la nuova Fondazione Prada che da sola riqualifica un pezzo di città e la porta a livello mondiale quanto a contemporaneità, ecco che salta all’occhio - e in questo le fotografie d’epoca sono eccezionali - la modernità assoluta di molti maestri del passato (Albini, Ponti, Portaluppi, Mangiarotti, Mari, Munari, Castiglioni...) rispetto a generazioni successive. Agente rivelatore è un altro asset fondamentale della città: la moda. Vedere questi signori del design vestiti sempre di tutto punto, giacca spigata e cravatta, il maglioncino di lana, chi in papillon, chi con pipa e, accanto, le loro creazioni, ne spiega immediatamente la forza portante delle loro idee: tanto appaiono loro compassati, tanto i loro oggetti sono dirompenti. Al contrario di molti designer più giovani che probabilmente si “vestono” da designer ma appaiono più banali nelle loro creazioni. In più non si tacciono le criticità: ed è una riflessione profonda che fa l’architetto Marco Romanelli. «Si è perso un rapporto straordinario - spiega - che poneva i designer e “i capitani d’industria” in una relazione intima, ove i feedback erano continui e positivi, non perché andasse tutto bene ma perché le osservazioni reciproche erano sempre volte a costruire piuttosto che smontare. Difficile abituarsi a circolare in aziende in cui non si incontrano più gli Astori, i Cassina, gli Zanotta, i Gavina. Difficile abituarsi al confronto con manager che cambiano al cambiare dell’umore di sconosciuti investitori e che vivono “la battaglia del progetto” esclusivamente come economica, mentre si tratta innanzitutto di una battaglia estetica, che si trasforma poi in una battaglia etica». Questo Milano, per fortuna, lo ha capito da tempo, e per questo è diventata la Design City. Il resto lo sanno fare anche altrove; ma l’intreccio idee-fattura è fondamentale ed è da qui che si può ripartire, di slancio, per i prossimi decenni.

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