La co-innovazione è engagement, coinvolgimento e cultura
Per una strategia di successo e duratura serve il coinvolgimento di più ambiti aziendali, dalle business unit all'amministrazione e alle risorse umane
di Gianni Rusconi
4' di lettura
Ci sono tanti modi per dare impulso all’open innovation e creare quel circolo virtuoso di relazioni che possono contribuire in modo decisivo ad accelerare il percorso di trasformazione digitale delle aziende italiane e del sistema Paese nel suo complesso. Facilitare la collaborazione e le partnership con il mondo esterno, favorire la contrattualizzazione di chi (startup, ricercatori, professionisti) presta la propria attività per una grande impresa sono capisaldi irrinunciabili se si vuole parlare seriamente di innovazione aperta.
Burocrazia, complessità gestionale e organizzativa o la mancanza di competenze adeguate sono, per contro, le criticità da eliminare se si vuole sviluppare un modello di crescita e sviluppo che sia organico, flessibile e fluido al tempo stesso. Oggi, in Italia, circa il 75% delle grandi imprese ha adottato un approccio di open innovation, sebbene con modalità diverse da caso a caso e non sempre raggiungendo gli obiettivi prefissati.
Per dare corpo a una strategia di co-innovazione di successo e duratura servono infatti determinati “requisiti” e il coinvolgimento di più ambiti aziendali, dalle business unit all'area amministrazione fino alle risorse umane. Ne abbiamo parlato con Valentina Sorgato, amministratore delegato di Smau, a cui si deve la stesura di un vademecum operativo (realizzato in collaborazione con A2A, Sirti, Simonelli Group, Deloitte e Ferrovie dello Stato) per aiutare le imprese a focalizzare le iniziative da intraprendere.
Diffondere i principi dell'innovazione aperta con le risorse umane: nelle aziende italiane vi sono le competenze per svolgere questo compito?
Le aziende hanno compreso perfettamente che la cultura dell’innovazione non può essere semplicemente calata dall’alto, ma deve necessariamente permeare tutta l’organizzazione e diventare patrimonio condiviso da ciascun dipendente: per raggiungere questo obiettivo le imprese più strutturate stanno già intraprendendo percorsi di change management anche con il supporto di partner esterni, come Smau, che le affiancano nel diffondere questo mindset a tutti i livelli aziendali. Ed è curioso notare che questo percorso fa emergere una propensione all’innovazione da parte di figure o ruoli inaspettati, che porta benefici non solo in termini di risultati nell’ambito dello specifico progetto di innovazione, ma anche a livello di engagement del collaboratore e di sua fidelizzazione verso l’azienda.
Quanto sono diffuse oggi figure come i Chief innovation manager o Digital Transformation officer?
Il ruolo dell’innovation manager si sta diffondendo sempre di più all’interno delle organizzazioni, spesso a diretto riporto dell’amministratore delegato, altre volte nell’ambito della funzione It o Hr o Strategia. Qualunque sia il posizionamento all’interno dell’organigramma, il tratto distintivo di questo ruolo è la capacità di abbattere barriere, stimolare l’osservazione da nuovi punti di vista, intraprendere percorsi che in condizioni normali non sarebbero nemmeno presi in considerazione.
Rispetto a quali dinamiche questa “nuova” figura opera in azienda?
Il ruolo presuppone, a volte, il fatto di lavorare controcorrente rispetto alle tipiche dinamiche aziendali e prevede, al fine di essere davvero efficaci nel compito, l’onere di riuscire a coinvolgere le altre funzioni. È un ruolo che diventerà sempre di più anello di congiunzione tra diverse figure di management, ponendosi come “partner interno” a supporto delle singole aree dell’azienda.
Il ruolo delle istituzioni e quello delle Università: manca ancora un collegamento organico fra questi soggetti e il mondo delle imprese e delle startup?
Il cosiddetto modello della “tripla elica”, che vede nel continuo scambio tra università, Pubblica amministrazione e imprese una dinamica efficace per stimolare l’innovazione, in Italia è sicuramente ancora perfettibile. Grazie anche agli stimoli dell’Unione Europea, che indirizzano questi tre attori e ne promuovono forme collaborative, negli ultimi anni si sono però riscontrati significativi miglioramenti.
Ci sono progetti a livello internazionale a cui fare riferimento?
Come Smau promuoviamo la conoscenza di alcune best practice europee particolarmente significative e all’evento di Milano in programma il 12 e 13 ottobre avremo per esempio SETsquared, un acceleratore nato dalla partnership tra cinque università del Sud dell’Inghilterra, in cui le startup trovano terreno fertile per dialogare con le imprese esistenti e sono supportate dal mondo accademico che le affianca nel perfezionamento del proprio modello di business. Un altro esempio è Digital Catapult, una rete di centri di ricerca appoggiati dal governo britannico che stimolano l’adozione delle nuove tecnologie emergenti, dall’intelligenza artificiale al 5G, dall’Internet of Things alla realtà virtuale e aumentata, per favorire la crescita delle imprese locali sui mercati esteri.
Open innovation è sinonimo di collaborazione e cooperazione: proviamo a dare un voto da 1 a 10 alla qualità dell’ecosistema italiano di startup e imprese.
Dal confronto con gli operatori internazionali sulle dinamiche dell’open innovation abbiamo imparato alcune cose. In primis che la qualità della nostra offerta di innovazione è apprezzata in tutto il mondo: da Israele agli Stati Uniti, da Berlino a Parigi, le aziende guardano con interesse all’Italia e sono interessate a lavorare con il nostro ecosistema, anche perché le nostre startup costano mediamente un terzo rispetto ad omologhe aziende tedesche o britanniche. Ci sono dunque tutti gli elementi necessari per vedere il bicchiere mezzo pieno, e se ci aggiungiamo le opportunità di sviluppo dell’ecosistema e del modello dell'open innovation legate alle risorse del Recovery Plan, allora possiamo davvero puntare al 10 e lode.
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