La Colonna Traiana fatta a fette
Una mostra alla Limonaia di Boboli affronta il tema delle tecniche e le modalità con cui venne eretto . il pesantissimo monumento, innalzato nel cuore di Roma per celebrare le vittorie di Traiano sui Daci
di Salvatore Settis
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Quando, col trattato di Tolentino (1797) la Francia vittoriosa impose al Papa la consegna di molti marmi antichi (fra cui il Laocoonte), Parigi divenne quasi la “nuova Roma” secondo l’antico sogno di Luigi XIV e Colbert. Ma non bastava: nel 1798 si pensò anche di smontare la Colonna Traiana per rimontarla a Parigi. Eppure il progetto si arenò su una difficoltà insormontabile: nessuno sapeva come smontare la Colonna senza distruggerla. Meglio lasciarla dov’era, e semmai farne una “copia”, con le imprese di Napoleone anziché quelle di Traiano, fusa nel bronzo dei cannoni di Austerlitz: quella che ancora sorge in Place Vendôme.
Come sia stata costruita la Colonna Traiana nessuna fonte lo dice. Innalzata in pochissimi anni, fu inaugurata il 12 maggio 113 d.C. per celebrare le campagne contro i Daci (101-107), con cui fu conquistata all’impero una nuova provincia (corrispondente all’odierna Romania). È alta 35 metri, e formata da 29 colossali blocchi di marmo di Carrara: otto parallelepipedi per il podio (dove si apre anche la porticina di accesso), mentre fusto e capitello sono fatti con diciannove monoliti cilindrici; sugli ultimi due blocchi sorgeva una statua di Traiano, perduta (al suo posto, dal 1587, un bronzeo San Pietro). Enorme il peso della Colonna, 1.036 tonnellate: i singoli blocchi pesano da 22 a 72 tonnellate, e c’è da chiedersi come siano stati sollevati e montati l’uno sull’altro con la tecnologia di quel tempo. All’interno dei blocchi del fusto è scavata una scala a chiocciola che con 185 gradini sale fin sul capitello, e qui si apre una terrazza (con vista mozzafiato) che può ospitare 30 persone. Il vuoto della scala alleggerisce di 1/3 il peso originario di ognuno dei rocchi della Colonna, che sono legati l’uno all’altro da quattro perni di bronzo ancorati con piombo fuso. Sul lato esterno, visibile da piazza Venezia, i rocchi sono scolpiti con il gigantesco fregio delle campagne di Traiano, che si avvolge 23 volte intorno al fusto come fosse di stoffa: se mai potessimo svolgerlo, sarebbe lungo 250 metri, con 2.570 figure umane (quella di Traiano ricorre 59 volte), 33 navi, 205 alberi e vari ponti, fra cui quello, enorme, edificato dai romani sul Danubio.
Il fregio è la più notevole opera di scultura romano-imperiale: per designarne l’autore, di cui nessuna fonte tramanda il nome, Ranuccio Bianchi Bandinelli inventò la fortunata formula «Maestro delle Imprese di Traiano». Sappiamo invece che Apollodoro di Damasco fu l’architetto del Foro Traiano di cui la Colonna faceva parte, sorgendo all’interno di uno stretto cortile (m. 20 x 25); e certamente deve aver avuto un ruolo anche nella progettazione e costruzione della Colonna, che è altissima opera di ingegneria. Per scolpire l’immenso fregio in così pochi anni fu necessaria un’accurata pianificazione (disegni? modelli o proplasmata?). Dobbiamo dunque immaginare una grande squadra al lavoro, maestranze specializzate nella lavorazione del marmo sia per la scala interna che per il fregio figurato in esterno, sotto la ferrea regia dell’architetto e di uno scultore-capobottega (secondo alcuni, lo stesso Apollodoro).
Le domande sulla costruzione della Colonna presero nuova urgenza durante i grandi restauri del monumento, promossi da Adriano La Regina (allora Soprintendente) e diretti da Bruno Zanardi. In quegli anni (1981-88) la Soprintendenza, con ricerche guidate da Giangiacomo Martines, fece significativi progressi sia nell’accertare i dati conoscitivi sulla Colonna sia nell’analizzarne i principi costruttivi e statici. Ma intanto uno scultore di grande esperienza, Claudio Capotondi, che nel suo studio di Pietrasanta ha piena familiarità col marmo delle vicine cave di Carrara, sviluppava per la Colonna Traiana quella speciale passione che viene non solo dalla curiosità intellettuale, ma dall’affinità manuale. Si è messo idealmente nei panni di quelle antiche maestranze, si è chiesto come quei blocchi giganteschi fossero stati tagliati dalla cava di Fantiscritti (ancora attiva a Carrara), trasportati a valle e poi sul mare, e poi a Roma per nave e lungo il Tevere, e infine lavorati secondo il maestoso progetto, fino a formare uno dei vertici più nobili dello skyline di Roma. Come si legge in un appunto sotto uno dei suoi disegni, «io conosco la fatica di scavare nel marmo picchiando con la subula e il malleus in giorni e giorni di lavoro, al freddo o sotto il solleone, di quegli uomini dimenticati che soffrirono e morirono per la gloria di Traiano». Ed è rivivendo quella fatica che Capotondi ha composto, per anni, una solitaria sinfonia di disegni, modelli, ipotesi di quella che ha chiamato «la mia rivisitazione costruttiva della Colonna Traiana». Soffrendo con loro e per loro (ma anche per noi), questo scultore del nostro tempo ha dato carne e sangue a quegli uomini dimenticati, ne ha ripercorso i pensieri e i gesti creando un’opera d’arte che non è retorico classicismo ma paziente, e per questo più salda e meritoria, performance di altissimo artigianato. Da lui donato in blocco al Museo Galileo di Firenze, questo lavoro unico per impegno e risultati è ora al centro di una mostra alla Limonaia di Boboli (20 giugno-6 ottobre 2019), per iniziativa del direttore del Museo Galileo Paolo Galluzzi e di uno storico della scienza e della tecnica antica, Giovanni Di Pasquale, che ha curato il catalogo (Giunti) L’arte di costruire un capolavoro: la Colonna Traiana. Dialogando con lo scultore, gli autori dei saggi (Martines con C. Conti, Di Pasquale, M. Wilson Jones, L. C. Lancaster, A. Claridge, C.F. Giuliani ed altri) collocano la sua poderosa fatica entro un molteplice contesto archeologico e di storia della scienza e della tecnica antiche.
Se, come è da sperare, il lavoro di Capotondi e le altre opere in mostra (rilievi antichi con scene di cantiere, strumenti di misurazione e di lavoro, monete...) approderanno anche a Roma non lontano dalla Colonna, ne risulterà ancor più pressante una domanda: perché tanto lavoro e tanta cura nel rappresentare le imprese di Traiano, se poi il pubblico di quel tempo, per seguire il racconto, avrebbe dovuto girare 23 volte (quante sono le spire del fregio) intorno alla Colonna, come un cavallo da circo? O volando a mezz’aria come un uccello? Un grande storico francese, Paul Veyne, ne concluse che la Colonna è un’«opera d’arte senza spettatori»: «il fregio scolpito, sebbene sia figurato e narrativo, ha solo un ruolo decorativo: l’uso migliore che si possa fare di costruzioni come questa non è di guardarle in dettaglio, ma di salirci sopra». Ipotesi attraente ma implausibile perché ispirata da un principio (l’art pour l’art) del tutto anacronistico nella Roma del 113 d.C.
Nel mio saggio in catalogo, riprendendo una diversa e opposta tradizione di studi, ho provato a leggere la Colonna (dedicata a Traiano dal Senato, lo dice l’iscrizione) nel contesto della strategia di “comunicazione”, come noi diremmo, della corte imperiale: di qui il mio titolo, L’imperatore e il suo pubblico. Non era possibile, ma nemmeno necessario, osservare il fregio figura per figura, dato che le scene di guerra, marcia nei boschi, sacrificio agli dèi, discorsi di Traiano ai soldati si succedono a decine, sempre diverse ma sempre uguali. Il rilievo, animato dal colore, suggeriva “regole di lettura”: per esempio, le tre scene di attraversamento di ponti fluviali sono disposte sullo stesso asse verticale, a tre altezze diverse. Ancora: il suicidio del re dace Decebalo, necessariamente in alto perché alla fine della guerra, è reso più visibile perché in asse con la figura di una Vittoria alata a metà del fusto. Scopo del fregio, più che l’ordinato racconto di una guerra, era consacrare l’immagine di Traiano come Optimus Princeps e modello per i sovrani a venire. Sullo scenario dell’Urbe (che allora aveva oltre un milione di abitanti) le immagini erano un potente veicolo di propaganda, e Traiano avrebbe ben potuto dire al Maestro della Colonna quel che il suo successore Lucio Vero scrisse allo storico ingaggiato per parlare di lui: «le mie imprese sono quel che sono, nè più né meno: ma quel che importa è come esse appariranno; ed esse appariranno tanto grandi quanto tu saprai farle apparire». La posta in gioco era la stabilità dell’impero: valeva dunque la pena di trasportare a Roma tonnellate di marmo, di investire tanta sapienza ingegneristica.
L’arte di costruire
un capolavoro: la Colonna Traiana
Firenze, Limonaia del Giardino di Boboli
fino al 6 ottobre. Catalogo Giunti
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