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La competitività ha bisogno di più investimenti

di Stefano Manzocchi

3' di lettura

La legge di bilancio 2019 si presenta, nel complesso, come una operazione centrata sui trasferimenti pubblici come veicoli di stimolo per la domanda interna, oltre che strumenti di equità sociale nelle intenzioni del governo. In questa direzione vanno gran parte delle misure più costose per il bilancio pubblico, mentre per il capitolo investimenti statali si stanzia uno 0,2 del Pil, pari a 3,5 miliardi aggiuntivi. Si intende poi sbloccare gli investimenti a livello locale riformando il patto di stabilità interno, e procedere ad una revisione della soglia per gli appalti senza gara. Infine, i provvedimenti di stimolo per gli investimenti privati già messi in campo nella precedente legislatura vengono sostanzialmente confermati (Industria 4.0 compresa) mentre quelli del governo Monti superati (Ace). È abbastanza per consolidare e rafforzare la ripresa degli investimenti cui si è assistito negli ultimi anni?

Le risposte possibili si collocano su piani diversi. Dal punto di vista meramente contabile, la frase rivelatrice si trova forse a pagina 4 del documento del Mef e assomiglia un poco ad un “vorrei ma non posso”: «Il Governo intende utilizzare eventuali spazi di bilancio aggiuntivi derivanti da maggior crescita o minori pagamenti per interessi per spostare ulteriori risorse verso gli investimenti pubblici e l’incentivazione di quelli privati». Sotto un profilo più ampiamente economico, gli investimenti privati rispondono alla dinamica della domanda interna oltre che estera, e quindi rafforzare le prospettive di spesa per consumi domestici può contribuire a sostenere l’accumulazione di capitale.

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Tuttavia, è ormai chiaro dalle esperienze di altri Paesi nonché dalla letteratura economica che gli investimenti pubblici e privati sono fortemente complementari. Ancor più rilevante, inoltre, è che questo vale in particolare modo per gli investimenti immateriali del settore pubblico (in ricerca e sviluppo; istruzione; miglioramenti delle tecniche, procedure e competenze della pubblica amministrazione, ecc.) in relazione gli investimenti materiali ed intangibili del settore privato. È questo il circolo virtuoso dell’economia della conoscenza su cui si fonda la competitività ed in ultima istanza la ricchezza delle nazioni contemporanee. Ed è qui che la filosofia sottostante la legge di bilancio 2019 si presta a critiche, magari non riferibili all’impatto immediato ma a quello negli anni a venire. Perché se gli obiettivi di stimolare la domanda e di ridurre le diseguaglianze (non quelle intergenerazionali, tuttavia) possono essere condivisibili, la risposta sul lato dell’offerta in termini di investimenti, progresso tecnologico e produttività di lungo periodo è assai più incerta. Con due possibili conseguenze non auspicabili: che una parte sostanziale della domanda aggiuntiva si diriga verso produzioni di altre nazioni più tecnologicamente dinamiche. E che la produttività aumenti solo nel breve periodo se ad un picco di domanda nel 2019 le imprese italiane risponderanno con un maggior utilizzo degli impianti esistenti, ma non nel lungo termine se gli investimenti non seguiranno.

In sintesi, se si ritiene che vi sia complementarietà tra investimenti pubblici e privati, materiali e immateriali, e che l’obiettivo di ridurre il gap di competitività dell’Italia verso i principali partner commerciali europei sia rilevante, il confronto con le strategie di politica economica di Francia e Germania in termini di investimenti pubblici rimane impietoso. La Francia prevede un piano aggiuntivo di 57 miliardi in 5 anni, con molti capitoli per l’innovazione e la creazione di un fondo rotativo finanziato dalla cessione di partecipazioni azionarie dello Stato. Lo Stato Federale tedesco spende circa 90 miliardi annui in conto capitale, contro i 40 dell’Italia.

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