La comunità del vantaggio, la frustrazione delle piazze globali e le responsabilità della politica
Nei movimenti di piazza da una parte si chiede maggiore libertà, dall’altra maggiore equità. Ma la richiesta, in fondo, è la stessa. La promessa della vita in comune, il mutuo vantaggio, negato e tradito
di Vittorio Pelligra
9' di lettura
Le piazze si stanno rianimando. Da Hong Kong a Santiago, da Parigi a La Paz, da Barcellona e Bogotá, fino alle nostre città, Bologna, Mantova e chissà quante altre ancora seguiranno ancora il flusso delle “sardine”. Un autunno caldo come non se ne vedevano da tempo. Qualcosa sta capitando, movimenti differenti, ragioni variegate e plurali, come lo sono le differenti storie delle comunità che manifestano, eppure, come ogni forma di discontento, anche queste hanno a fondamento e sono generate da un profondo senso di frustrazione.
Abbiamo, come nel caso di Hong Kong , un’aspirazione di democrazia e libertà negata da una politica capitalistica che, pur producendo una grande ricchezza, al tempo stesso, si mostra illiberale al punto da operare la censura e un fortissimo controllo sociale.
In altri casi, Cile e Colombia, le promesse di benessere pagate al prezzo carissimo di politiche ultraliberiste che svaniscono di fronte all’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana. Oppure la Bolivia, dove il miraggio di un governo del popolo viene tradito dalla sordità alla sua voce, ignorata, nel momento in cui va contro il potere del momento. E poi aspirazioni di indipendenza, di partecipazione, serenità e normalizzazione, come quelle rivendicate dalle sardine nostrane o dei gilet gialli, con tutte le possibili differenze del caso.
Eppure, sempre sembra venire meno qualcosa, la promessa primigenia della vita in comune, che ci rende necessario l’esser gruppo e cioè un’assicurazione collettiva contro la cattiva sorte, ma ancora di più, la promessa di un mutuo vantaggio, un beneficio reciproco.
Costituirsi in comunità è la risposta umana alle sfide dell’esistenza. La scelta di darsi regole di rispetto e di reciprocità, di riconoscimento e fiducia, affidabilità e cooperazione, trova fondamento nella prospettiva di poter raggiungere risultati, in termini di benessere, sicurezza e sviluppo, altrimenti fuori dalla portata del singolo. Senza questo cemento la vita in comune sarebbe, nel peggiore dei casi, uno stato di natura hobbesiano dove «non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve».
Ecco dunque la possibilità e la necessità di costruire relazioni sociali cooperative, fondate, nel solco della tradizione del liberalismo democratico, su ciò che John Stuart Mill definisce «la comunità del vantaggio». L’idea secondo cui la vita sociale ed economica si costruisce attorno alla cooperazione finalizzata al reciproco e mutuo vantaggio.
Andare a fondo a questa idea è un’operazione tanto complessa quanto necessaria. Ci prova, con un risultato impressionante per lucidità e portata, l’economista e filosofo inglese Robert Sugden, nel suo ultimo libro, intitolato “The Community of Advantage” (Oxford University Press, 2018). L’idea di mutuo vantaggio viene declinata ulteriormente in tre principi complementari secondo cui oltre al beneficio reciproco, come principio regolatore della vita associata, si aggiunge la visione del mercato come una rete di transazioni volontarie mutuamente vantaggiose e, infine, il fatto che nell’ambito di queste transazioni cooperative, debba stare al singolo individuo decidere cosa sia, per lui, vantaggioso e cosa no.
Sembrano idee innocenti e quasi scontate; in realtà sono foriere di una rivoluzione concettuale che non solo ci aiuta a capire i movimenti della più stringente modernità, ma indirizzano verso strade che ne illuminano il futuro.
Lette su questo sfondo, per esempio, le piazze assumono un colore particolare, quello della delusione e dell’esclusione, del rimpianto e del tradimento. La molla della promessa tradita di un vantaggio comune, magari non equamente distribuito, ma pur sempre un vantaggio per tutti, raggiungibile nell’ambito di una economia di mercato ben regolata e orientata verso l’efficienza. Promessa tradita che parla di esclusione di coloro che non avendo accesso ai vantaggi della crescita e rimanendo nelle code lunghe della distribuzione della ricchezza, si vedono sempre più marginali anche da un punto di vista politico e sociale. Strati crescenti della popolazione mondiale che diventano eterei politicamente parlando, del tutto ininfluenti. E non importa, in questo senso, se la rivendicazione è quella di una maggiore libertà nella ricca Hong Kong, o di traporti pubblici alla portata di tutti nella popolosa e iniqua Santiago. La radice è la stessa.
Da una parte si chiede maggiore libertà, dall’altra maggiore equità. Ma la richiesta, in fondo, è la stessa. La promessa della vita in comune, il mutuo vantaggio, negato e tradito. La voglia di partecipazione e normalità delle sardine e quella di visibilità e riconoscimento dei gilet gialli, parla la stessa lingua, perché la moneta del mutuo vantaggio non è la ricchezza per sé, o la libertà, o il potere politico o l’accesso all’informazione, ma sono le opportunità.
In una tradizione autenticamente liberale, ricchezza, potere, informazione, partecipazione, istruzione, salute, diritti, non rappresentano dei fini in sé, ma sono mezzi per poter vivere la vita che ciascuno, individualmente, ritiene degna di essere vissuta. Nessuno dovrebbe dirci qual è questa forma di vita, ma ognuno dovrebbe pretendere di poterlo decidere da sé.
Per questo il criterio di valutazione di ciò che è vantaggioso e di ciò che non lo è, all’interno di un certo patto sociale, può essere declinato solamente in termini di spazi di opportunità. Ciò equivale a chiedersi quanto la società nella quale vivo mi consente di scegliere tra modi di vita alternativi, quante opzioni ho concretamente a disposizione, quante diverse opportunità di scelta mi si offrono.
Solo per fare un esempio, si può affermare che una società più ricca è migliore di una società meno ricca? In questo senso la risposta non può essere univoca. Perché la prima può essere bloccata in termini di mobilità sociale. Se la famiglia nella quale nasci, e non per merito o demerito, determinerà in maniera rilevante chi sarai da grande, le scuole a cui potrai avere accesso, la qualità delle cure sanitarie, le prospettive di partecipazione sociale e il peso politico che potrai esercitare, siamo sicuri che questa società, pure più ricca, possa essere ritenuta “migliore” di una nella quale lo spazio delle opportunità si presenta più ampio, nonostante un livello di reddito pro-capite inferiore? Possiamo anche essere ricchi e affluenti, eppure intrappolati in un sistema ingiusto di “impari opportunità”, socialmente patogeno e instabile, dove rendite di posizione, strutture di potere oligarchiche e un mercato eccessivamente concentrato possono dirottare la promessa di mutuo vantaggio solo verso alcuni e a discapito di molti che vedono i loro spazi di opportunità restringersi sempre più. E allora la frustrazione, il senso di tradimento, di sfiducia e di rimpianto che generano le piazze, attuali e potenziali.
Se questa diagnosi possiede un minimo di realismo descrittivo, ci dovrebbe indurre a porci una questione centrale. Qual è la via per dare risposte vere e credibili a questa profonda domanda di opportunità? La strada sembra essere esattamente contraria a quella percorsa negli ultimi decenni dalla politica di stampo populista, da Forza Italia, alla Lega, fino al M5S. L’ascolto degli umori degli elettori e la risposta in termini di quei provvedimenti calibrati sulle preferenze della maggioranza di quegli stessi elettori. Questa politica si è dimostrata fondamentalmente inconcludente e perfino dannosa.
Una semplice e radicale spiegazione sta nel fatto che le preferenze degli elettori, semplicemente, non esistono. Non esistono cioè strutture date e stabili di preferenze che, per ogni singolo individuo, determinano ordinamenti su possibili esiti o scenari. Nelle nostre teste non esiste niente di simile a una classifica precostituita su quanto ci piacciono le diverse aliquote fiscali o le diverse ipotesi di regolamentazione della cittadinanza o sui vari gradi di tolleranza religiosa o, ancora, sulle proposte alternative di tutela dell’ambiente.
Uno dei risultati più forti e robusti dell’economia comportamentale degli ultimi decenni mostra, infatti, che le nostre preferenze non sono “date”, ma sono “costruite” e sono quindi malleabili, variabili nel tempo, ambigue e incerte. A volte, fino al punto di non poter decidere cosa “preferire”, se non dopo aver scelto.
Si capisce bene, quindi, che, se ci poniamo nella prospettiva di una politica davvero rispettosa delle persone, di come siamo realmente, e non di come ci piacerebbe che fossimo, una politica, quindi, che tenga conto di come pensiamo, di come decidiamo e di come funzionano, nei fatti, i nostri cervelli, allora l’ascolto del popolo è solo un espediente retorico di bassa lega per mascherare scelte prese altrove, non certo nell’agorà pubblica e democratica. La stessa retorica vuota della democrazia diretta o del popolo che decide.
In questi termini, far decidere il popolo o gli iscritti alle piattaforme online, significa solo fargli ratificare scelte già prese. Uno standard piuttosto basso per ogni idea di democrazia liberale. Ma ci sono possibili alternative, per fortuna. Alternative che per essere credibili, dovrebbero fondarsi su quattro pilastri: su un approccio contrattualista, sul concetto di responsabilità, sul principio del mutuo vantaggio e sul criterio di opportunità.
L’approccio contrattualista prevede che ogni scelta che produce conseguenze su di me, direttamente o indirettamente, debba essere l’esito di un’adesione volontaria a un accordo sottoscritto dalle parti. Se uno dei contraenti desidera che l’altro compia una serie di azioni, faccia la sua parte per raggiungere l’obiettivo comune, occorre che lo convinca attraverso argomenti validi; attraverso argomenti che l’altra parte ritiene validi. È questo lo spazio del dibattito pubblico in una democrazia liberale.
È la politica a dover elaborare delle proposte e a dover convincere, sulla base di argomenti validi, i cittadini del fatto che tali proposte andranno a promuovere il loro interesse; un interesse che in questo senso non può che assumere la forma di un mutuo vantaggio. L’alternativa a questa prospettiva non può che essere quella di una, più o meno velata, autocrazia, nel migliore dei casi, benevolente, nel peggiore dei casi estrattiva, ma sempre illiberale.
L’impressione è che, soprattutto nel panorama della nostra politica, nessuna delle componenti in gioco abbia la voglia o la capacità di assumersi la responsabilità di esercitare questo ruolo. Da una parte c’è il finto ascolto delle istanze popolari e dall’altra, la proposta vagamente impositiva di politiche, magari orientate a un ragionevole buon senso, ma scarsamente convincenti e di poca presa. Manca la fatica della persuasione, o forse prevale il fastidio per la necessità di una legittimazione che non può che arrivare dai cittadini.
Il secondo pilastro è quello del principio di responsabilità in virtù del quale i voti si chiedono sulla base di idee che si sono poste all'attenzione dei cittadini, delle quali ci si assume la paternità e la responsabilità, appunto. Se le idee non vengono accolte vuol dire, o che non sono state spiegate adeguatamente, e questa è una colpa, o che, semplicemente, non sono state accolte dai cittadini, qualunque sia stato il criterio di valutazione; e questo, invece, è un fatto. A sostenere questa interpretazione sta l’assunzione secondo cui ogni essere umano con il quale noi interagiamo, debba essere considerato un essere umano degno di rispetto, ragionevole e più simile a noi di quanto non possa sembrare a prima vista.
Quest’ultimo, invece, è un dovere morale e pragmatico. Il terzo pilastro è costituito dal principio di mutuo vantaggio. È il criterio attraverso il quale possiamo valutare la bontà del nostro patto sociale. In una democrazia liberale ogni politica acquista significato solamente se produce un vantaggio reciproco.
Nel breve periodo potrebbe anche esserci un’asimmetria in questo senso; i vantaggi potrebbero essere distribuiti in maniera diseguale, ma nel lungo periodo, nessuna comunità potrebbe continuare reggersi stabilmente sulla base di un patto nel quale qualcuno vince sempre e qualcun altro, sistematicamente, ci rimette. Infine, l’ultimo punto: come distinguere ciò che è vantaggioso da ciò che non lo è? Come misurare, cioè, il vantaggio reciproco? Con il “principio di opportunità”.
Se un accordo, che ho volontariamente sottoscritto, che sia attraverso una firma in un contratto, o un voto politico, è in grado di produrre un allargamento del mio spazio delle opportunità, senza, contemporaneamente, determinare la riduzione dello spazio delle opportunità di qualcun altro, allora tale accordo può essere definito mutuamente vantaggioso. Questo principio mette al riparo da facili manipolazioni. Immaginate che qualcuno vi dica che l’Europa più che madre è matrigna e che sarebbe meglio uscire dall’euro; o che vi faccia credere che meno immigrazione significherebbe più posti di lavoro e ricchezza per gli italiani, o ancora, che una tassa bassa per ricchi e poveri avvantaggerebbe sia ricchi che poveri; o che una pensione anticipata per tutti farebbe aumentare le opportunità di lavoro per i giovani che non riescono a trovarlo.
Come potremmo fare a valutare la bontà di tali proposte? Idealmente occorrerebbe avere il cosiddetto “controfattuale”. Potremmo valutare ciascuna di queste politiche confrontando ciò che succederebbe attuandole, rispetto a ciò che, a parità di condizioni, sarebbe successo se non le avessimo attuate. Questo, come è facile capire, non è un esercizio sempre praticabile. E questa è la ragione per cui abbiamo bisogno di un altro criterio per valutare la bontà di certe proposte. E il criterio sono i cittadini stessi. Ciascuno di noi.
Dovremmo aver il coraggio, veramente, di far decidere ai cittadini, ad ogni uomo e donna, qual è la vita che ognuno di loro ritiene degna di essere vissuta. Dovremmo avere il coraggio di rivendicare la necessità che questa possibilità ci venga data. Anzi dovremmo prendercela, tale possibilità, di valutare, attraverso questo criterio, quali siano le politiche che aumentano le opportunità di vivere la vita che ciascuno ritiene degna di vivere: fare o non fare un figlio, accettare o non accettare un lavoro in una fabbrica di armi, scegliere se studiare oppure no, amare chi si vuole amare, ridere o no, conoscere, incontrare, accogliere, perfino sbagliare.
Perché una società dove è possibile scegliere di sbagliare è sempre meglio di una società nella quale qualcuno mi obbliga a non sbagliare. Se non posso sbagliare non posso imparare. Ma di questo bisogna convincere ogni cittadino, in maniera ragionevole e con argomenti veritieri, non con bassi espedienti, gattini, bacioni o altri mezzi da imbonitore di folle. Questo è il ruolo più autentico della politica, di quella politica di cui avrebbe bisogno un paese civile e moderno. È questo, in fondo, ciò che le piazze ci stanno chiedendo.
loading...