La sentenza

La Corte Suprema infligge una dura sconfitta al sindacato americano

di Marco Valsania

(Bloomberg)

3' di lettura

NEW YORK - I sindacati americani, già sotto assedio da anni per leggi sempre più restrittive e cali degli iscritti nel settore privato, soffrono adesso una cocente sconfitta per mano della magistratura nel settore pubblico, tra i loro rimanenti punti di forza. La Corte Suprema, in una delle decisioni più attese e controverse dell'anno, ha concluso che i dipendenti pubblici che non aderiscono alle union non devono versare contributi al sindacato del settore. Un simile obbligo, hanno sostenuto i giudici, è da considerarsi incostituzionale. Anche se i lavoratori beneficiano della contrattazione collettiva, i cui costi sono sostenuti dal sindacato che è tenuto a rappresentare gli interessi di tutti.
«Obbligare individui a sostenere opinioni con cui sono in disaccordo viola un diritto costituzionale cardine - ha scritto per la maggioranza il giudice Samuel Alito - E nella maggior parte dei contesti simili sforzi verrebbero universalmente condannati».

Ma quell'universalità citata da Alito, che fa riferimento a una possibile violazione del diritto d'espressione, è men che riconosciuta da tutti nella vicenda sindacale e ha in realtà convinto a malapena la stessa Corte Suprema. Il verdetto, in un caso portato da Mark Janus, dipendente del Dipartimento della Sanità dell'Illinois, riflette infatti una netta spaccatura tra la maggioranza conservatrice della Corte, rafforzata dalle nomine sotto il Presidente Donald Trump, con cinque giudici che hanno messo in minoranza i quattro esponenti liberal.
Oggi oltre un terzo dei dipendenti pubblici è sindacalizzato, contro soltanto il 6,5% dei lavoratori del settore privato. E una ventina di stati richiedono esplicitamente, attraverso accordi con le union, un versamento generalizzato di quote al sindacato, posizione che potrebbe essere adesso invalidata. In un ulteriore segno del significato dello scontro, il verdetto ha ribaltato un precedente legale che resisteva da ben 40 anni e che invece stabiliva la legittimità dei contributi sindacali in discussione - nel 1977 il caso Abood contro il Provveditorato scolastico di Detroit.

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Ricordare quella battaglia può chiarire sia la posta in gioco che la polemica sulle attuali argomentazioni: al cospetto di una Corte molto più progressista, si concluse allora con la decisione opposta, che i dipendenti pubblici possono essere tenuti a pagare le cosiddette “agency fees”, o “fair share fees”. Si tratta di contributi destinati a coprire i costi della contrattazione collettiva e degli accordi di lavoro che riguardano anche dipendenti non sindacalizzati e che escludono invece esplicitamente campagne politiche, elettorali o di sensibilizzazione sociale da parte delle union.

Nel caso odierno di Janus, la sua “quota” mensile era di 45 dollari, pagata alla American Federation of State, County, and Municipal Employees. Il suo nome e il suo versamento erano tuttavia unicamente una facciata: è stato reclutato dal gruppo anti-sindacale National Right to Work Legal Defense Foundation, che ha sostenuto il ricorso. La sua denuncia cita la tesi accettata dalla Corte Suprema, che le quote violano il Primo Emendamento della Costituzione. Sostiene che nel caso dei sindacati dei dipendenti pubblici, visto che i loro negoziati contrattuali sono con il governo e con esponenti eletti, rappresentano essi stessi una forma di lobby politica e che separare attività strettamente sindacale da iniziative politiche del sindacato è impossibile. Le union hanno ribattuto affermando che le agency fees sono intese semplicemente a evitare il “free riding” da parte di dipendenti: il sindacato pubblico è obbligato per legge a rappresentare gli interessi sia di iscritti che di non iscritti e i contributi lo compensano di simili costi. Gli alti magistrati hanno dato torto alle union, che potrebbero ora vedere prosciugarsi importanti risorse finanziarie e perdere ulteriore influenza.

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