La Corte Suprema Usa sul caso Warhol: stop al fair use
Con una sentenza di maggioranza, 7su 2, i giudici supremi condannano la Fondazione Andy Warhol per violazione del copyright dello scatto ritraente Richard Prince della fotografa Lynn Goldsmith
di Giuditta Giardini
I punti chiave
3' di lettura
Lo scorso giovedì 18 maggio, la Corte Suprema degli Stati Uniti, con un voto di 7 a 2, ha stabilito che Andy Warhol non aveva il diritto di utilizzare il ritratto fotografico di Richard Prince del fotografo Lynn Goldsmith per scopi commerciali. La sentenza è molto importante per gli Usa perché limita l'estensione del “fair use”, una difesa contro la violazione del copyright altrui.
Dopo la recente sconfitta davanti alla giustizia fiorentina, si torna a parlare della ‘leggerezza' (reale o presunta) di Condé Nast che nel 2016, per celebrare la morte del cantante Richard Prince, ha pubblicato uno dei 16 ritratti fotografici realizzati da Andy Warhol nel 1984, per «Vanity Fair», noti come «The Orange series», per 10.250 dollari pagati alla Fondazione Warhol, che dal 1987 cura l'eredità dell'artista della Pop art.
La fotografia, alterata nei colori da Warhol, era stata scattata originariamente nel 1981 da Lynn Goldsmith che non aveva autorizzato l'uso del 2016 e neppure era stata pagata per quelle riproduzioni. Così, iniziò la causa nel 2017. In primo grado, la Corte del Distretto Federale di Manhattan aveva deciso a favore di Warhol, vedendo nella sua fotografia “qualcosa di nuovo”, poi la Corte d'Appello del Secondo Circuito era ritornata sui suoi passi costringendo la Fondazione Andy Warhol ad appellarsi alla Suprema Corte.
La tanto attesa sentenza, a firma della giudice Sonia Sotomayor, limita la difesa di equità del “fair use” che giustifica, in alcuni casi, trasgressioni del copyright altrui nel mondo dell'arte figurativa. “Le opere d'arte originali come le fotografie sono protette dal diritto d'autore anche quando vengono utilizzate da famosi artisti”. Secondo la giudice Sotomayor affermare l'opposto, “autorizzerebbe lo sfruttamento commerciale di copie di fotografie per usi simili agli usi originali”. Infatti, la semplice azione di prendere una fotografia altrui, alterarne alcuni tratti e venderla come propria non è sufficiente per appellarsi all'uso trasformativo del “fair use”.
Giudici o critici d’arte?
Contrari alla posizione di maggioranza sono due giudici liberali che hanno espresso il loro disappunto. La giudice Elena Kegan, con toni taglienti, sostiene che la sentenza contenga incongruenze ed esagerazioni dall'inizio alla fine. La giudice liberale ha ritenuto che il primo fattore del “fair use” che riguarda “il fine e il carattere” dell'uso dell'opera originale non sia stato valutato attentamente e ha parlato proprio di cecità dei suoi colleghi che si sono “soffermati esclusivamente sulle immagini” senza ascoltare gli esperti “in merito all'interpretazione estetica e al significato” di quello che stavano osservando. Su questo punto si era già espresso il giudice John G. Koeltl della Corte Distrettuale d'Appello del Secondo Circuito che aveva scritto che i giudici non possono vestire i panni dei critici d'arte. Vero è che l'opinione di maggioranza e l'opinione dissenziente sembrano estrapolate da libri di storia dell'arte. In ultima battuta Kegan, per dimostrare l'appropriazione artistica nei secoli, si è lanciata persino in una comparazione tra la «Venere dormiente» di Giorgione, la «Venere» di Urbino di Tiziano e l'«Olympia» di Manet.
L’uso trasformativo
Il perno del ragionamento giuridico di maggioranza è stato proprio quell'uso trasformativo che rappresenta uno dei quattro pilastri del test giurisprudenziale del “fair use”. Secondo la Corte Suprema un utilizzo di materiale protetto altrui è trasformativo se “aggiunge qualcosa di nuovo, un nuovo fine, un angolo diverso, alterando lo scopo con una nuova espressione, significato o messaggio”. Per la giudice Kegan, invece, le immagini di Warhol non sono “fungibili” come i suoi colleghi hanno ritenuto. L'esempio che usa è calzante: “immagina di essere l'editor di «Vanity Fair» di Condé Nast incaricato di pubblicare un articolo su Prince. Ti serve una foto, ovviamente. Un tuo dipendente ti porta due opzioni: una fotografia di Goldsmith e un ritratto di Warhol. Diresti che è indifferente quale foto verrà scelta? Lasceresti libero il tuo dipendente di lanciare una moneta per decidere? L'opinione di maggioranza la lancerebbe a quanto pare. Per fortuna che la maggioranza non è nel mercato editoriale. Certo che è importante la scelta!”
Per quanto riguarda la finalità e il carattere dell’uso dell’artista della Pop art, l’opinione di maggioranza ha ritenuto che nel caso della fotografia di Warhol si trattasse di un uso lucrativo e concorrenziale rispetto al lavoro di Goldsmith. Molti artisti come Goldsmith vivono con le licenze dei loro scatti. «Questi rappresentano un incentivo a creare lavori originali, proteggerli è il fine stesso del copyright» ha chiosato Sotomayor. L’uso in questo caso differisce da quello del logo delle lattine della Campbell, in quella vicenda infatti, come ha ribadito la giudice, non c’era sovrapposizione e la critica di Warhol al consumismo era chiara.
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