La creatività è un elemento chiave per il successo, ma richiede allenamento
L’abitudine a elaborare alternative aumenta le possibilità di riuscire a realizzare realtà il più possibile vicine a quella che davvero interessa
di Massimo Calì *
3' di lettura
Da tempo sentiamo con urgenza crescente parlare di creatività come di una necessità anche nelle aziende, al punto che il tema è spesso saldamente nelle agende formative. Ed è un bene, rispetto ai tempi invero ormai lontani in cui era un po’ di moda e piaceva a tutti senza impegnare troppo. La domanda è quindi attuale: detto che unanimemente piace credersi “creativi”, al punto che chi ritiene di esserlo poco ormai lo confessa quasi scusandosene, perché serve esserlo (di più)?
Prima questione: definire la creatività. Come spesso capita con le parole, tutti sappiamo cosa significano ma quando dobbiamo confrontarci sulle definizioni, ne scopriamo tante quante siamo, dissimili e poco sovrapponibili. Io scelgo di dirla con Annamaria Testa, che nel suo bel blog (guarda caso intitolato “nuovo e utile”), ci racconta che “risale agli inizi del secolo scorso una delle prime, e forse ancor oggi la più convincente fra le moltissime definizioni di “creatività”: fa capo al grande matematico francese Henri Poincaré, che nel 1906, in Scienza e metodo, parla di trovare connessioni nuove, e utili, tra elementi distanti tra loro”.
Una celebre citazione di Steve Jobs dice una cosa simile (“la creatività è solo connettere le cose. Quando chiedi alle persone creative come hanno fatto qualcosa, si sentono un po’ in colpa perché non l’hanno fatto davvero, hanno solo visto qualcosa”) ed entrambe indirizzano verso una creatività slegata dal processo artistico e dall’arte, che seppur necessaria alle nostre vite, in azienda può confondere le acque (tranne che nell’industria dell’intrattenimento, ovviamente).
Altro tema: l’innovazione. Se le associamo in modo lineare (e ci potrebbe stare, pensando alle “connessioni nuove”) la creatività rischia di essere quella cosa che serve al reparto “Ricerca & Sviluppo”, o a quelli che lavorano in determinati settori di avanguardia; ma se vendo assicurazioni, o salumi, faccio muri o cos’altro, non mi serve essere creativo perché sono mestieri consolidati. Anzi, alcuni lo sono al punto che la creatività sembra controproducente anche a chi quei mestieri li pratica, se non addirittura cialtronesca (pensate alla finanza che giornalisticamente diventa “creativa” nei protagonisti di comportamenti fraudolenti in quel mondo).
Ebbene, così come molti nostri figli faranno lavori che ancora non esistono con problemi che ancora non conosciamo, ciascuno di noi nel proprio ambito dovrà sempre più spesso confrontarsi con problematiche, necessità e situazioni inedite, in cui la creatività darà un grande supporto. Di fronte all’inedito combinarsi di variabili interdipendenti tra loro e legate da relazioni non lineari, serviranno soluzioni inedite. Senza dibattere in questa sede se la creatività sia più una attitudine, un’indole, un sistema di pensiero, una competenza o una meta-competenza (in soldoni, una competenza trasversale che ci abilita ad utilizzare le altre competenze) vale la pena dirsi che è meglio non lasciarla solo al talento e al caso, e conviene quindi chiedersi come può essere favorita e allenata.
Chi, come i miei colleghi ed io, da anni parla nelle aziende di complessità, può testimoniare che allenarsi alla creatività si può e serve anche per allenarsi alla complessità stessa, cercando la cosiddetta ridondanza cognitiva, cioè l’abitudine a elaborare alternative di mondo: più sono e più sono ampie e maggiori le possibilità che ho di realizzare realtà il più possibile vicine a quella che mi interessa. E le nostre alternative di mondo dipendono da quanta varietà sappiamo frequentare, stimolare, scovare, ricercare, accogliere.
Picasso diceva “io non cerco, trovo”. Che possiamo leggere come “non ho bisogno di cercare, perché trovo” (il famoso talento); oppure che per trovare è meglio mettersi in una condizione di apertura tale per cui trovi in continuazione, anche quando non cerchi espressamente. Lasciarsi andare quindi, spostarsi da un luogo ad un altro letteralmente e metaforicamente, e andare fuori dai normali solchi cognitivi. E lasciarsi andare anche nel trovare talvolta tempo per non fare nulla di (apparentemente) produttivo, confidando negli studi neuroscientifici che sostengono che anche ozio e noia sono importanti per ampliare le nostre facoltà mentali e immaginative.
Di consigli pratici ne troviamo ormai a volontà, a partire dal cambiare strada al mattino ogni tanto andando in ufficio. Io preferisco chiudere concentrandomi sul concetto di “volere”, cioè la nostra capacità di trasformare un desiderio o una necessità in azione. Perché in fondo (ammettiamolo) nessuno di noi cambia mai strada al mattino se non trova coda, quindi tocca decidersi: qualunque cosa scegliate per ampliare la vostra creatività, fatela. Insomma, non solo la creatività al potere, ma al volere: da domani sarò creativo, solo se lo voglio.
* Partner di Newton Spa
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