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La crisi europea e la tirannia delle ambiguità

di Sergio Fabbrini

(Ap)

5' di lettura

L’Unione Europea è in crisi anche per le sue ambiguità. Si consideri la recente proposta del cancelliere tedesco Angela Merkel di inserire, nella Dichiarazione di Roma per i 60 anni dei Trattati, il principio che l’Ue dei prossimi dieci anni potrà procedere a più velocità. Una formula ambigua accolta da ambigui consensi e dissensi. Si scrive Europa a più velocità, ma per alcuni si legge unione più stretta e per altri geometrie variabili. Tant’è che la stessa Merkel ha dovuto fare un passo indietro, precisando, nel recente incontro con Mario Draghi, cosa “non voleva intendere” con quella formula. Ognuno tira la coperta dalla propria parte, con il risultato che l’Ue rimane al freddo. L’ambiguità è accettabile quando le cose vanno bene, diventa però tirannica quando le cose vanno male. Perché impedisce di capire i termini delle scelte che l’Ue dovrà fare. E le ambiguità emerse nel dibattito non aiutano a fare quelle scelte.

Cominciamo dall’Europa a più velocità. Questa formula assume che i Paesi dell’Ue condividano la stessa direzione di marcia, anche se poi potranno percorrerla a velocità diverse. È così? Non sembra proprio. Gli Stati membri dell’Ue o gruppi di essi, come è testimoniato dalla vicenda che ha condotto alla Brexit, perseguono in realtà direzioni diverse, non già si muovono verso la stessa direzione seppure a velocità diverse (come la formula postula). Vi è un gruppo di Stati (si pensi ai Paesi scandinavi o dell’Est europeo) che vuole perseguire un’integrazione esclusivamente economica, pensando così di preservare la loro sovranità nazionale (presunta o reale che sia). Questi Stati hanno fatto di tutto, e continueranno a farlo, per bloccare o posticipare ogni passo in avanti del processo d’integrazione politica. Quest’ultimo, invece, continua ad essere l’obiettivo di un gruppo di Stati (dell’Europa occidentale continentale) che si è impegnato ad andare verso un’unione sempre più stretta.

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Allora, perché insistere a pensare che tutti andranno nella stessa direzione? Se è irrealistica l’Europa a più velocità, ancora di più lo è la formula dell’Europa a geometrie variabili. Questa formula assume che l’Ue possa trasformarsi in un sistema in cui gruppi (o clubs) di Paesi diversi collaborano in relazione a politiche diverse. Ogni politica organizza un numero variabile di partecipanti, dando vita a geometrie partecipative distinte. Contrariamente alla formula precedente, qui si assume che i Paesi europei non abbiano lo stesso obiettivo integrativo, ma abbiano solamente degli interessi diversi da soddisfare. Così, l’Ue dovrebbe diventare un’organizzazione internazionale di fornitura di servizi, abbandonando la sua aspirazione di dare vita ad una democrazia sovranazionale.

Ciò che colpisce è che entrambe le formule hanno poco o punto a che fare con il modo in cui funziona l’Ue. Quest’ultima è da tempo un’organizzazione differenziata. Una differenziazione che riguarda le prospettiva e non solo i tempi dell’integrazione (contrariamente a ciò che assume la formula delle più velocità), ma che tuttavia non consiste nella variabilità di combinazioni diverse di Paesi per ogni politica europea (contrariamente a ciò che auspica la formula dei clubs). Se si capisce come è differenziata l’Ue, sarà allora più facile liberarci dalla tirannia delle formule ambigue e delle loro ambigue interpretazioni. L’Ue ha due tipi di differenziazione che sono rilevanti per questa discussione.

Il primo tipo di differenziazione riguarda la partecipazione a regimi di politiche pubbliche. Degli attuali 28 Stati membri dell’Ue, solamente 19 fanno parte dell’Eurozona; solamente 22 Stati fanno parte dell’Area di Schengen; solamente 23 fanno parte dello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia. Attraverso la clausola dell’autoesclusione (o dell’opt-out), è stato consentito ad alcuni Paesi di non partecipare all’uno o all’altro di questi regimi di policy, in cambio del loro impegno a non ostacolarne la realizzazione.

Il secondo tipo di differenziazione concerne invece la partecipazione a specifici regimi istituzionali, come le Convenzioni tra Stati (all’interno dell’ordine legale dell’Ue) oppure i Trattati intergovernativi (esterni a quell’ordine). Per quanto riguarda il primo caso, ad esempio, solamente 14 Paesi hanno sottoscritto la Convenzione di Prum per combattere il terrorismo e la criminalità transnazionale oppure solamente 17 Paesi partecipano alla cooperazione rafforzata per uniformare la legislazione sul divorzio e la separazione legale. Per quanto riguarda il secondo caso, ad esempio, solamente i 19 Paesi dell’Eurozona hanno sottoscritto il Trattato del Meccanismo Unico di Stabilità, mentre il Fiscal Compact non fu sottoscritto dal Regno Unito e per molto tempo neppure dalla Repubblica Ceca. Inoltre, ma questo è un caso a sua volta diverso dagli altri, la Polonia e il Regno Unito non hanno mai sottoscritto la Carta dei Diritti Fondamentali, che costituisce uno dei tre Trattati che costituiscono il Trattato di Lisbona.

Come si vede, le due formule evocate nella discussione di questi giorni hanno poco o punto a che fare con la realtà dell’Ue. Quest’ultima é da tempo differenziata rispetto agli obiettivi dell’integrazione e non solo rispetto ai tempi per raggiungere quegli obiettivi. Un gruppo di Paesi non vuole partecipare alla moneta comune, ma solamente al mercato unico. Se nel passato si fosse preso atto di ciò, forse Brexit poteva essere evitata.

Nello stesso tempo, la differenziazione dell’Ue mostra che l’Europa dei clubs o delle geometrie variabili è altrettanto inverosimile. Infatti, c’è un gruppo maggioritario di Paesi (che coincide in larga parte con l’Eurozona) che partecipa a tutte le politiche rilevanti, oltre ad aver sottoscritto anche i principali Trattati intergovernativi. Quindi l’Ue è differenziata al proprio interno rispetto ai due principali progetti integrativi, quello della moneta singola e quello del mercato unico. Se così è, allora è su questa differenziazione che va definita la “formula” per fare uscire l’Ue dalla crisi.

Occorre cioè andare verso uno sdoppiamento costituzionale dell’attuale Trattato di Lisbona, spingendo i Paesi dell’Eurozona (o una larga parte di essi) ad evolvere verso un’unione politica caratterizzata dalla gestione di politiche di interesse comune attraverso istituzioni comuni. Rafforzando contemporaneamente il mercato singolo dove collaborazioni specifiche possono essere realizzate, su alcune specifiche policies, tra l’unione politica e l’uno o l’altro Paese ad essa esterno.

I cittadini degli Stati che partecipano all’unione politica debbono sapere chi è responsabile di cosa, perché solamente così potranno influenzare le scelte europee senza rivendicare la loro nazionalizzazione. L’unione politica è cosa diversa dalla proposta, avanzata in un documento del 1994 da Wofgang Schäuble e Karl Lamers, di creare una kerneuropa o core Europe. Per i due esponenti cristiano-democratici tedeschi, la kerneuropa avrebbe dovuto essere costituita (almeno inizialmente) dei Paesi in grado di rispettare precisi parametri economici.

Tuttavia, un’unione che compone o federa Stati diversi può nascere solamente da una scelta di natura politica, non già da una pre-condizione economica, ovvero dalla volontà di condividere la propria sovranità con altri Stati sulle politiche di valenza europea, preservando la propria sovranità (e responsabilità) sulle politiche di valenza nazionale.

Ecco perché occorre liberarsi dalla tirannia delle formule ambigue. Esse non aiutano a fare le scelte necessarie. La Dichiarazione di Roma dovrebbe indicare con chiarezza la necessità di costruire un’unione politica a partire dai Paesi che condividono la moneta comune, non già cincischiare con formule che ogni Paese può interpretare come più gli conviene.

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