ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùBeni semipubblici

La cultura è il sale (e molto di più) della nostra vita

Perché è così radicato e comune il pensiero che la cultura sia utile e quindi abbia valore?

di Paola Dubini

(kbarzycki - stock.adobe.com)

3' di lettura

Oliviero Ponte di Pino ha una lunga esperienza professionale e militanza nei settori culturali: conosce il teatro, l’editoria, il mondo dei festival culturali, le ibridazioni e le profonde differenze, fra i diversi mondi di chi la cultura “la fa e la pratica”. Non stupisce quindi che il suo ultimo libro (Cultura, un patrimonio per la democrazia, Vita e Pensiero, 2023) sia ricco di spunti e di suggestioni e sia scritto con l’energia che lo caratterizza. Mi soffermo qui in particolare su un capitolo, intitolato: “A cosa serve la cultura?”.

L’incipit evidenzia una questione ben nota e ancor più praticata: c’è sempre un investimento più urgente rispetto a quello in cultura, non solo da parte degli enti pubblici, ma anche da parte dei privati, che siano sponsor e donatori o cittadini. A domanda, non è difficile rispondere: «A poco» e chiudere lì la questione.

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Naturalmente l’autore la pensa in modo diverso; leggendo il capitolo mi veniva in mente una delle fiabe raccolte da Italo Calvino, che parla di una principessa che aveva detto di voler bene a suo padre come il sale. Cacciata di casa per ingratitudine, aveva invece dimostrato al padre, dopo mille traversie, come una sostanza pervasivamente presente nelle nostre vite cambi non solo il sapore dei nostri piatti, ma la qualità della nostra vita. Ecco, il capitolo (e tutto il libro) ci ricorda che la cultura è il sale della terra.

Ma se è così, perché è così radicato e comune il pensiero che la cultura sia utile e quindi abbia valore? Gli economisti indicano una serie di parametri che ci aiutano a capire perché la cultura abbia un rapporto problematico con il mercato e perché così tante persone ne diano un frettoloso giudizio di bene inutile, superfluo, destinato a pochi.

In primis, parliamo di un bene semipubblico, la cui fruizione può non determinare rivalità nel consumo: se godo della bellezza di un monumento dalla cima di una collina, anche altri possono godere dello stesso piacere. I beni semipubblici sono spesso dati per scontati: così come ci preoccupiamo della qualità dell’aria solo quando diventa irrespirabile (anche con una certa flemma, a dire il vero), così ci preoccupiamo dei destini dei libri preziosi solo dopo le alluvioni che li hanno irreparabilmente danneggiati. In fase preventiva, la schiera di chi sostiene l’inutilità dell’investimento in conservazione è foltissima, nella tristezza della perdita, l’utilità appare altissima, ma l’investimento nella ricostruzione delle case e nel ripristino delle attività economiche è comprensibilmente più urgente e di maggiore utilità immediata. Ancora, la cultura è un bene di esperienza: la sua qualità, il suo valore le sue caratteristiche (e quindi anche la sua utilità) non sono evidenti fino a quando non si sperimenta con l’uso. E siccome molti prodotti e attività culturali sono fruiti da pochi, è facile che la voce che sostiene l’inutilità della cultura si senta forte e chiara rispetto alla voce di chi la pratica. Inoltre, in quanto bene di merito, il beneficio percepito (come appunto l’utilità) non è completamente riconosciuto al momento della fruizione. Come avviene nel caso dell’istruzione, la fruizione della cultura non genera percezione di beneficio immediato, ma dal punto di vista della collettività, alti livelli di istruzione e di consumi culturali generano utilità collettiva. E, infine, in quanto credence good, i beni e le attività culturali sono difficili da valutare nella loro qualità e utilità anche dopo l’acquisto o la fruizione. E quindi l’utilità della cultura emerge con la fiducia, la pratica, il confronto, l’assaggio di forme espressive, linguaggi, contesti di fruizione diversi.

L’insieme di queste caratteristiche ci aiuta a spiegare perché è così frequente un atteggiamento di sufficienza nei confronti della cultura (non serve, è per pochi, è cerebrale, è noiosa…). E perché, come Ponte di Pino ben argomenta nel libro, gli elementi di utilità che vengono solitamente sottolineati (la capacità di definire classi sociali, il valore educativo, di svago, la ricchezza economica generata, la capacità di costruire immaginari, solleticare curiosità, stimolare interessi e quindi alimentare un desiderio di crescita personale) restituiscono una visione parziale e non rendono completamente giustizia del profondo valore e della infinita pragmatica utilità della cultura nel darci senso come persone e consistenza al tessuto delle nostre relazioni. Non serve tanto sale nelle nostre diete, ma serve tutti i giorni; e come ci insegnano gli antichi e come i contemporanei ancora praticano, il sale ci è utile sia per avere più gusto tutti i giorni, sia per mangiare in inverno, per mare, in condizioni difficili. È utilissimo, insomma. Come la cultura.

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