La dittatura dell’ottimismo
Ecco cosa la pandemia ha fatto alla nostra percezione: nel giro di qualche settimana è scattato l’ imperativo a riscrivere la realtà ribaltandola in una visione irrealistica e univoca. Infine, tempo un mese scarso e il maquillage “pensopositivista” si è divorato tutto
di Marco Archetti
4' di lettura
Dopo tre mesi rivedo amici che mi chiedono come sia andata la pandemia e mi guardano con occhi nuovi e tiepidi d'amore, quasi fossi stato a lungo in un posto lontano, irraggiungibile, vagamente esotico. In realtà sono rimasto a casa mia, luogo noto, luogo che alcuni di loro conoscono come le proprie tasche. Eppure eccoli davanti a me che trasecolano morbidamente, soppesano l'aria che ho intorno e mi guardano straniti e lievi come si guarda uno che è stato sei anni nelle isole Tanimbar e adesso, toh, riappare.
È grazie a una di queste conversazioni che mi sono reso conto di quanto, per molti, lo spazio- tempo della pandemia abbia rappresentato esattamente questo, ossia una singolare parentesi di esotismo, e di come la mitopoiesi della realtà che stavamo vivendo (e di quella che ci avrebbe aspettato a emergenza superata) abbia riguardato davvero tutti. La pandemia dell'ottimismo ha cominciato a dilagare proprio mentre i dati della realtà incrudivano. Nel giro di qualche settimana si è trasformata in dittatura emotiva, nel senso di imperativo a riscrivere la realtà ribaltandola in una visione irrealistica e univoca. Infine, tempo un mese scarso e il maquillage pensopositivista si è divorato tutto.
Il paziente zero è stato un noto giallista: in una trasmissione radiofonica, a fine febbraio, in un languido sottovoce, invitava la gente a scoprire quanto potesse essere «misteriosa la propria casa». Pochi giorni dopo, dalle colonne di un giornale, un suo collega ricamava su quanto fosse il momento adatto per riscoprire i cosiddetti “veri valori”, e a nostro vantaggio riciclava il vuoto in forme edificanti di proficuità psicologica: starsene in casa la sera, riflettere, lavorare su se stessi, analizzare la propria vita alla luce dei cambiamenti, fare i puzzle, le ombre cinesi, i tangram e gli animaletti col DAS.
Poi da marzo è partito il vero effetto domino, un gran putiferio retorico di inviti all'acquisizione di nuovi stili di vita e ammonimenti a restare con i pori aperti e la mente sveglia. Incandescenti bisettrici filosofiche correvano da un angolo all'altro delle nostre case improvvisamente circondariali e illuminavano come bengala le macerie di sotto, raccontandocene l'inaudito splendore: celebrazioni delle meravigliose città vuote, delle irripetibili opportunità morali offerte dalle tragedie in generale, della straordinaria bellezza del mondo e della vita, senza il mondo e senza la vita; insomma, tutto un provvido letame da cui sarebbero nati i fior, la morte trasformata nel futuro («il seme del ribaltamento», diceva Carlo Emilio Gadda), la cultura-contro-la-paura (ma intanto: biblioteche chiuse, librerie chiuse, teatri e cinema chiusi) e un decollo di intelletti che non sembravano aver aspettato altro che il Rinascimento del Coronavirus per fondare la città ideale marziana.
I più si attrezzavano: cominciavano ad arredarsi l'immaginario con vasi di begonie futuromiglioriste («ne usciremo migliori, più profondi e solidali»), altri bloccavano la porta col palmizio negatorio della realtà, altri ancora si stordivano di zoo-utopie a base di delfini nei porti, lepri in città, daini in piscina, oppure partecipando all'incongrua baldanza dei balconi e agli “andrà tutto bene” che erano peggio di parole scritte sull'acqua perché erano parole scritte nell'aria, e l'aria stava diventando un tabù, non la potevamo nemmeno respirare (non tutta, non la stessa), improvvisamente era maledetta e assassina perfino la più minuscola gocciolina salivare, goccioline che sono le parole e i respiri della nostra stessa vita, infinitesima ed essenziale, magniloquente e banale, perché cosa facciamo da mane a sera se non inspirare, espirare, pontificare, raccontare, ridere, piangere, borbottare, sbuffare?
Intanto sovrabbondavano i festoni sulle bellezze della reclusione (mentre in appartamenti inadeguati si soffocava di fatica, solitudine e sordo risentimento), piovevano a catinelle i consigli sui libri da leggere (radicando la convinzione che leggere sia cosa cui dedicarsi quando sei in prigione o non ti permettono nemmeno di portar fuori il cane), e ovunque pullulavano le occasioni da cogliere. Era quasi da ringraziare, questa pandemia: l'economia si fermava, le scuole chiudevano, il mondo s'inchiodava, ma (fase 1) noi avevamo l'occasione di arricchirci / (fase 2) anzi, a pensarci bene era accaduto quel che era accaduto proprio perché noi potessimo arricchirci.
(Istantaneo ricordo del 2009: mio padre che perde il lavoro a cinquantasei anni, e un giorno mi porta a casa un volantino su un ciclo di incontri di self help psico-aziendale intitolato “Per fortuna che c'è la crisi!”). Molti pensano che il danno sia cominciato col primato della narrazione, che prevede una legge inviolabile: a ogni ostacolo seguono il faticoso superamento e l'inevitabile riscatto. Ma la realtà non obbedisce necessariamente a traiettorie virtuose – chi lo sa se ci saranno redenzioni per il compleanno. Al momento, focolai di risse maggiori e minori brillano ovunque. Forse è più realisticamente nelle nostre possibilità fare il possibile per uscir vivi dai disastri e non venir tragicamente peggiorati dalla nostra sopravvivenza, resistendo alla virulenza di noi stessi e delle nostre necessità di cosmesi continue, evitando di soccombere a complottismi e psicosi – ottimistiche o pessimistiche fa lo stesso: fino a poco prima della pandemia non vivevamo forse nella dittatura opposta, quella del pessimismo e del peggiore dei mondi possibili?
Non constatavamo, con cupa voluttà socialmediarola, che nessuna epoca era terribile e miseranda quanto la nostra? Charlie Chaplin diceva che la situazione più comica immaginabile è quella di un uomo che, sospeso in una posizione incredibile, finga che non gli stia accadendo nulla, e si aggiusti la cravatta. Per mesi ci siamo aggiustati la cravatta, però adesso sarebbe il caso di passare ad altro. (Poi vabbè, c'era quello che diceva che il comico è il tragico visto di spalle, ma era evidentemente un pessimista).
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