La dittatura del mercato rischia di far collassare l’equilibrio dell’arte
La democrazia e la salute di uno Stato si basano sul principio di equilibrio tra poteri. È una formula antica e tripartita
di Gian Maria Tosatti
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La democrazia e la salute di uno Stato si basano sul principio di equilibrio tra poteri. È una formula antica e tripartita. Ne parla per primo Aristotele nella Politica, poi, passando per Locke, è Montesquieu, ne Lo spirito delle leggi del 1748, a darne la versione che oggi applichiamo in ogni sistema istituzionale, comunitario, territoriale, nazionale o trans-nazionale. Funziona così l’Unione Europea con il suo parlamento, la commissione e la corte, come anche lo Stato italiano, con il governo, le camere e la magistratura.
Ma al di là del piano puramente istituzionale, anche il “sistema paese” funziona con la stessa logica. Alla triade dei poteri classici, cioè legislativo-esecutivo-giudiziario, si sostituisce quella più complessa politica-cultura-economia. Sono queste le forze che tengono in piedi l’Italia, gli Stati Uniti, la Germania e ogni democrazia del mondo. Ognuno di questi poteri ha radici e ragioni profonde, determinate da specificità, talvolta territoriali, altre filosofiche. Quando una di queste forze va in sofferenza, le altre due crescono e guadagnano spazio. Se, invece, sono due di esse a subire una flessione, si verifica l’egemonia della terza, che, sovente, conduce ad una dittatura (Montesquieu). Ma se, apparentemente, i tre poteri possono sembrare in conflitto tra loro – ognuno animato dalla volontà di prevalere sull’altro – l’esperienza e la storia, ci insegnano che solo quando sono in perfetto equilibrio essi funzionano correttamente. Un potere egemone, infatti, patisce la debolezza degli altri due, sviluppando tossine che lo porteranno, pian piano, ad entrare esso stesso in crisi.
La situazione politica attuale di alcuni Paesi europei ed extraeuropei ne è buon esempio. L’asservimento dei poteri legislativo e giudiziario a quello esecutivo, in Russia, ha prodotto il titanismo putiniano che abbiamo imparato a conoscere. E, nello stesso Paese, la preponderanza della politica e del mercato delle risorse naturali sulla cultura – intesa anche come libera informazione, libera espressione, e qualità dell’educazione – ha condotto alla soppressione degli anticorpi civili che avrebbero reso impossibile l’invasione dell’Ucraina. Potremmo fare discorsi simili per la Turchia, la Cina, l’Ungheria...
Anche lo Stato dell’Arte funziona così. Ovviamente non si tratta di una nazione. Somiglia piuttosto ad un arcipelago fatto di isole che corrispondono ad alcune comunità culturali i cui perimetri somigliano solo vagamente a quelli dei paesi disegnati sulle mappe. In una recente conversazione pubblica col filosofo Luciano Floridi, affrontavamo l’idea che anche la cultura, per poter essere democratica, abbia bisogno di un equilibrio tra poteri. Ma quali sono i poteri che governano quello che abbiamo definito «lo Stato dell’Arte»? Abbiamo sempre una triade con cui fare i conti. A doversi bilanciare sono l’autorità estetica, quella etica e quella economica. Definire quest’ultima è fin troppo semplice. Essa corrisponde al sistema mercato che, nei fatti, immette carburante nell’intero macchinario. L’autorità estetica, invece, è quella che appartiene all’arte propriamente detta e agli artisti. Il concetto di estetica, filosoficamente, precede quello di etica. Ad esso si attribuiscono le forze primarie del pensiero e dell’azione. Ad esse appartengono i fenomeni e chi li produce, dunque le opere e i suoi autori. L’autorità etica, invece, è quella che identifica forze di reazione, ossia quelle che esercitano gli strumenti della riflessione e del giudizio. Appartengono a tale autorità i critici nelle loro molteplici specificità: storici dell’arte, curatori, critici militanti, direttori di istituzioni, ecc. Questa seconda autorità ha un compito cruciale, quello di riconoscere, collocare e garantire il valore di un oggetto o di una esperienza estetica (quindi di un’opera d’arte) rispetto a quella complessa galassia di sistemi interdipendenti e intertemporali che è la maglia in cui è tessuta, come un racconto coerente, la storia dell’umanità.
Sulle pagine di questo giornale – e, ad onor del vero, anche di molti altri quotidiani e riviste –, per oltre un mese e mezzo ha tenuto banco una discussione sullo stato di silenzio in cui è ridotta la critica. Quel che non è emerso, però, nel dibattito, è a cosa giovi tale silenzio. È presto detto: al livellamento dei valori di riferimento che si attribuiscono alle opere e ai percorsi degli artisti. Di ciò si avvantaggia il mercato per crescere in modo sregolato. Laddove, infatti, non vi è riflessione e giudizio sul valore di ciò che si produce, ogni mercante è libero di vendere qualsiasi cosa come fosse un capolavoro, immettendo sicuramente più economie nel sistema, ma anche sviluppando una pericolosa bolla. Non bisogna, infatti, credere che i poteri che gli uomini hanno istituito per governarsi possano eludere la severità di un altro potere più alto, trascendente, quello della Storia. E si badi bene che quest’ultimo, può mostrare la sua disciplina non solo dopo ere o secoli, ma talvolta se ne percepisce il severo rigore anche in un orizzonte di decenni o di lustri.
Ciò conduce alla facile dimostrazione di come la dittatura del mercato, che vende di tutto e a tutti (amanti dell’arte improvvisati, impreparati, agguantati alla bisogna), si trovi poi a fare i conti con aver distribuito valori non garantiti e non capaci di resistere al tempo (neppure al tempo breve). L’effetto di questa dinamica, alla lunga, su chi, investe, produce qualcosa di simile al domino che spazzò via mezza finanza americana al tempo della crisi sui mutui sub-prime. Chi si trova in possesso di valori non garantiti e quindi, bruciati, è destinato, alla lunga, a maturare una sfiducia che si farà sentire e si tradurrà nella mancata disponibilità di capitali. I trent’anni di crisi dell’autorità etica di cui abbiamo parlato su queste pagine oggi iniziano a mostrare le loro conseguenze. Il mercato dittatore, somiglia sempre più a quei
vecchi autocrati, un tempo sfolgoranti rivoluzionari ed oggi imbiancati reggenti senza redini di uno stato pieno di metastasi. Un giro nelle fiere internazionali basta, per chi abbia lucidità di sguardo, a percepire la catastrofe imminente.
Dell’autorità estetica non ho fin qui, volutamente, parlato, perché essa, più che “livellata”, è stata, letteralmente, brutalizzata dal mercato. Oggi essere bête comme un peintre ad un artista è richiesto. Quasi fosse un’etichetta da rispettare, per non turbare troppo le contrattazioni. La conseguenza è che recentemente, una importante istituzione italiana si è rifiutata di ospitare un dialogo fra tre artisti senza moderatore, giudicandoli, evidentemente, non in grado di poter affrontare un discorso in pubblico da soli. E, abitualmente, i collezionisti – ossia i principi degli art-lovers- preferiscono passare il tempo a cena coi galleristi, piuttosto che negli studi ad affrontare i sensi profondi e i misteri che stanno dietro le opere
di cui ambiscono a divenire custodi. Eppure le opere, resilientemente, continuano ad essere prodotte, col loro carico di domande tragiche
e con l’elettrica verticalità della loro dialettica, istituendo un naturale dialogo con la Storia che renderà loro giustizia.
Per concludere, non si legga questa mia nota come una sentenza pessimistica. Essa è solo una diagnosi. Prima che il mercato collassi, sommerso dalla sfiducia degli investitori, c’è ancora tempo per corrergli in soccorso. Ma per farlo, l’autorità estetica e quella etica dovranno trovare la forza e la responsabilità di crescere e riguadagnare posizioni. E così, il vecchio dittatore col fiato corto, che oggi ci governa con mano brutale, perché obnubilato e incancrenito, ma anche perché sente il freddo della morte sul suo collo e ne ha paura, tornerà a respirare e ad essere una energia verde (sostenibile) a servizio del sistema.
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