La donna che non aveva la tv e il mercato audiovisivo fatto come una cometa
«A casa nostra non c’era la televisione. Mio padre era convinto che inibisse lo sviluppo della creatività perché era un mezzo di ricezione passiva. Da bambina ho visto sì e no qualche Carosello a casa delle nonne». Il talento segue strade antifrastiche.
di Nicoletta Polla Mattiot
6' di lettura
«A casa nostra non c’era la televisione. Mio padre era convinto che inibisse lo sviluppo della creatività perché era un mezzo di ricezione passiva. Da bambina ho visto sì e no qualche Carosello a casa delle nonne». Il talento segue strade antifrastiche. Chi parla è la prima presidente donna alla guida dell’Apa, l’associazione produttori audiovisivi, che rappresenta oltre sessanta imprese che fanno film e serie per la tv. «Io sono partita da zero. Ho fatto Lettere, mi sono laureata sull’Orestea di Eschilo, ho studiato arpa al Conservatorio, cantato nel coro dell’Accademia della Filarmonica romana. Il mio babbo è architetto, mi ha cresciuto con un’educazione al bello, all’arte, al senso dello spazio. Ho iniziato a leggere a due anni e viaggiato nel mondo, molto prima di farlo realmente, grazie ai libri. Passavamo ore sulle fotografie dei palazzi, le illustrazioni dei musei». Più che il curriculum di una top manager, il ritratto che Chiara Sbarigia compone assomiglia a un lungo piano sequenza. «Sono nata a Roma, ma le nostre radici sono sparse: una nonna francese e una tedesca, un bisnonno che è stato il fotografo del re. Si era trasferito dall’Austria a Napoli e ha aperto con un socio la Sommer&Behles: gli archivi Alinari sono pieni dei loro lavori sui Musei Vaticani, le rovine di Pompei, le strade di Napoli, Firenze, Roma, l’eruzione del Vesuvio… La mia bisnonna era ciociara e l’altro bisnonno era di Corigliano Calabro. Pensare che il calabrese abbia sposato l’austriaca e la francese il ciociaro mi fa sempre ridere. Aggiungo che un nonno era garibaldino e c’è il suo busto al Gianicolo». Di questo incrocio di origini, una vocazione internazionale e meticcia scritta nella genetica familiare, Sbarigia raccoglie il testimone su un doppio livello, professionale e privato. Il suo primo lavoro è orientato a sviluppare le relazioni con l’estero della neonata APT (che in seguito diventerà Apa): «Avevo iniziato da appena un anno, era il 1995, e mi hanno scaraventato negli Stati Uniti a fare il primo mercato degli audiovisivi. Ero spaventatissima. Di lì a poco, nel ’97, sono entrata a far parte del Coordinamento europeo dei produttori indipendenti e ho capito quanto importante fosse l’Italia in questo sistema: siamo considerati uno dei cinque Paesi grandi produttori e la nostra creatività è rispettata». Da quegli esordi, dove ansia ed energia pesano in dosi eguali, Chiara scala tutte le posizioni all’interno dell’associazione fino a diventare direttore generale nel 2003, fonda e dirige il RomaFictionFest e il Mercato internazionale dell’audiovisivo. Nel frattempo, il mondo intorno a lei cambia. «Quando ho iniziato a lavorare c’erano solo Rai e Mediaset. La televisione pubblica era piena di film americani perché si pensava che mandare in onda produzioni nazionali fosse controproducente, il pubblico non le voleva. La mia prima battaglia è stata spingere le serie italiane. La seconda, ancora più grande, affermare la dignità del piccolo schermo. Il cinema era il padre nobile, l’audiovisivo era considerato di serie B, se un attore si metteva a fare fiction, all’epoca si chiamavano così, i grandi registi smettevano di chiamarlo». Oggi l’orizzonte è ribaltato: la visione da rituale e collettiva è diventata individuale e privata, si è trasferita dalle sale alle piattaforme e al divano di casa. Il successo di Netflix ha rivoluzionato business e abitudini. «Oggi il mercato audiovisivo si configura come una cometa: al centro ci sono enormi multinazionali, come Fremantle, Banijay, la coda è fatta di decine di piccole e medie imprese, importanti per garantire il pluralismo. Sono strutture leggere per costi fissi e personale a tempo indeterminato, ma capaci di mettere insieme anche produzioni importanti. Io li rappresento tutti e devo contemperare i bisogni dei grandissimi di adesso, che sono stati i piccoli di una volta, e le necessità delle realtà minori, che vanno sostenute sul costo del denaro, le regole d’ingaggio e i tempi della committenza. In Italia il produttore indipendente è l’equivalente americano dello showrunner. Si occupa anche di tutta la fase di sviluppo editoriale, la sceneggiatura, i rapporti con gli attori e i registi. I contenuti sono il punto di forza di queste aziende, ma poi l’idea deve diventare prodotto, ed essere vista, venduta». Sogno e messa a terra, creatività e budget: è un settore che si espande a doppio binario. Lo è anche la carriera della neo-presidente a cui brillano gli occhi quando parla di unicorni come La casa di carta o il nostro Mare fuori («usciti sulla tv generalista, passati quasi inosservati e poi esplosi sulle piattaforme»), che promuove convegni e restauri, commissiona performance artistiche, ma deve far quadrare i conti. «Io ho fatto studi umanistici, non so proprio come sia riuscita a cavarmela con i numeri! Però ho un buon istinto e so circondarmi delle persone giuste», dice ridendo. «Ho passato anni a fare bilanci, ma alla fine il principio che mi guida è semplice: cercare di non spendere più di quanto ho. Poi sono un’entusiasta e ce la metto tutta, le persone si fanno convincere, alla fine le soluzioni si trovano: i finanziatori, gli sponsor, quelli che vogliono condividere con te un pezzo di strada, anche se non puoi pagarli quanto vorresti». Se la nomina a presidente Apa è arrivata a giugno 2023, quella di presidente di Cinecittà risale a due anni fa: anche la carriera di Sbarigia assomiglia a una costellazione. «È presto per un bilancio, però sono abbastanza contenta di tutto quello che ho impostato finora. Per esempio, la formazione, nessuno l’aveva mai fatta prima a Cinecittà e ce n’è un gran bisogno. Ci sono mestieri del set che stanno scomparendo, mancano decoratori, progettisti 3D, tagliatori di stoffa specializzati, legali, scenografi… Basti pensare che le riprese di Bridgerton si sono fermate perché i Pinewood Studios, i più grandi d’Europa, non avevano abbastanza maestranze. Un altro bel traguardo sarà la riapertura del MIAC (il Museo italiano dell'audiovisivo e del cinema) il prossimo 5 ottobre. Sì, un po’ mi sono impegnata…». Nell’impegno c’è anche la programmazione delle celebrazioni per i 100 anni dell’Istituto Luce che ricorrono nel 2024 e il secondo appuntamento, a inizio anno, con l’originale format intergenerazionale sulla leadership femminile. In mezzo e più vicini, la presentazione di una poderosa ricerca sul settore dell’audiovisivo (il 13 ottobre), commissionata a tre diversi Istituti (eMedia, Symbola e Cattolica di Milano/Ce.R.T.A), l’esposizione dedicata ai “Tarocchi” di Pino Settanni a Venezia (fino al 26 novembre) e una nuova mostra in preparazione sulle “Architetture Inabitabili” con la fotografa Silvia Camporesi. Un’ottica di conservazione, ma anche di generazione di nuovo patrimonio, la stessa che ha animato la produzione della performance VB93 di Vanessa Beecroft al famoso Teatro 5 o l’acquisizione dei materiali dello storico studio del regista Ettore Scola e dello scenografo Luciano Ricceri.
Da questo elenco parziale e per nulla esaustivo di cariche, idee, progetti e attività, non stupisce che per tracciare un ritratto di Chiara Sbarigia ci siano voluti tre incontri: il primo nell’ufficio di Cinecittà, il secondo all’Acquario romano, condividendo la due-giorni sul lavoro delle donne, il terzo su Teams, mentre è in vacanza e non si può fare a meno di parlare di libri: «Mi sto dedicando a Houellebecq, a Carrère e a qualcosa di fantascienza, che adoro» (per inciso, è anche nella giuria del più importante premio letterario italiano, lo Strega).
Prima di concludere, occorre tornare all’imprinting internazionale da cui siamo partiti: Sbarigia lo ha ereditato e sviluppato alla potenza, nella vita pubblica e privata.
Il quadro cosmopolita della storia familiare non è completo senza aggiungere la Cambogia, il paese d’origine del figlio.
«Nella maternità naturale nasce un bambino che ti assomiglia, il gioco dei rispecchiamenti è immediato: ha gli occhi del nonno, le orecchie della zia… Quando con il mio primo marito ho deciso di adottare, sapevo che avrei dovuto fare i conti con la totale alterità somatica. Eppure, questa diversità io non l’ho mai sentita. Mi manca proprio la percezione di razza diversa, non ce l’ho in generale, con nessuno. Per me tutte le persone hanno una cifra individuale e basta. Vedere e riconoscere mio figlio è stato naturale. Un po’ meno naturale e facile è stato gestire tutto! Non volevo assolutamente rinunciare al mio lavoro, che amo, e ho fatto i salti mortali. Facevo le riunioni dai giardinetti mentre lui andava sullo scivolo… Ancora oggi che ha vent’anni, mi ripete: «Mamma, ma stai sempre al telefono, tu lavori troppo!».
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