La fase 2 per l’export del made in Italy fa rotta ancora su Londra
Nel 2019 l’interscambio commerciale con la Gran Bretagna, rileva l’Ice di Londra, ha toccato i 29 miliardi di sterline, in crescita del 4%. Ma ll’Italia ha venduto merci in Uk per 19 miliardi soprattutto nel settore alimentare
di Simone Filippetti
5' di lettura
All’angolo di Grosvenor Square e Brook Street, nell’elegante quartiere Mayfair di Londra, sopra a un piccolo portico svetta la bandiera italiana: è la sede dell’ambasciata. Il portone d’ingresso è sempre chiuso, ma in tempi normali dentro il lussuoso palazzo è un continuo di eventi per promuovere il Made in Italy e cucire le relazioni tra i due paesi. Nell’epoca del mondo blindato per Coronavirus, il portone continua a rimanere chiuso, come sempre, ma all’interno non c’è nessun evento. Però il Made in Italy non si può fermare, tanto più ora che c’è da ricostruire un paese, anzi due, Italia e I’Inghilterra, entrambi travolti dalla peggiore crisi economica di sempre.
Scambi commerciali
Va tenuto in vita il canale commerciale Italia-Regno Unito, una voce fondamentale per la bilancia commerciale del paese. Nonostante mal di pancia per la Brexit, tuttora un’incognita che spaventa di più del Coronavirus; e nonostante poca empatia del paese verso l’arrogante Boris Johnson, il Regno Unito ama i prodotti italiani. Ma, soprattutto, ama mangiare italiano: in un qualsiasi delle migliaia di Tesco, Sainsbury’s e M&S Food, le più grandi catene, paste fresca, vini, olio, passate di pomodoro, mozzarelle, frutta e verdura sono tutti prodotti italiani.
Per quanto appariscente, cibo è però solo una delle tanti voci del Made in Italy a Londra. L’Italia è un esportatore netto nel Regno Unito: l’anno scorso l’interscambio commerciale, rileva l’Ice di Londra, ha toccato i 29 miliardi di sterline, in crescita del 4%. Ma la fetta più grossa va al Belpaese: l’Italia ha venduto merci in Uk per 19 miliardi. Allo stesso tempo ne ha comprate dal Regno Unito solo per 9 miliardi: c’è un avanzo secco di 10 miliardi. La bilancia commerciale, trainata dall’alimentare che da apripista, pende dunque tutta a favore del paese. Dunque ha tutto l’interesse a che la Gran Bretagna rimanda un compratore affezionato del cibo dei prodotti italiani.
Le istituzioni
La mossa del cavallo è partita dall’Ambasciata Italiana a Londra dove Raffaele Trombetta, il diplomatico che da 2 anni tiene le redini delle relazioni tra i due paesi. La rete di istituzioni che presidiano il Made in Italy in Gran Bretagna stanno orchestrando una Fase 2 per l’Italia dell’export (e non solo) in UK. Ambasciata e Ice, il braccio economico della Farnesina guidato a Londra da Ferdinando Pastore, hanno riunito 600 aziende attorno a un tavolo virtuale; e poi in un altro tutte le aziende italiane in Uk, a partire da Leonardo (il più grosso datore di lavoro tricolore con 7mila addetti) ed Eni. La riapertura è la priorità per tutti, soprattutto per il mondo del commercio, dove in prima fila c’è la ristorazione frammentata in migliaia di piccole imprese familiari in UK: loro sono i collettori di buona parte dell’export alimentare. I supermercati non hanno mai chiuso, ma la disponibilità di prodotti italiani sui banconi si è rallentata, per la chiusura dei trasporti e anche per le difficoltà logistiche (accentuate anche delle diverse regole de paesi che le merci italiane devono attraversare prima di arrivare in UK).
Sicurezza
Per ripartire occorre sicurezza: ma per ora le aziende italiane in UK lamentano una carenza di reperibilità di materiale sanitario e le regole da seguire non sono chiare. Accanto alla sicurezza l’altro tema è il sostegno economico: il governo si è mosso subito, prima con un mega piano di aiuti pubblici da 330 miliardi e con l’estensione delle garanzie governative sui prestiti al 100% dell’importo, cosa che sbloccherà migliaia di prestiti alle aziende che a cascata si ripercuoteranno sull'import. Per quanto riguarda le imprese, per favorire l’accesso alla liquidità necessaria da parte delle imprese il Governo ha varato un piano monstre di aiuti pubblici da 330 miliardi di sterline, uno sforzo senza precedenti: e in più ha aperto l'ombrello della garanzia statale a copertura di prestiti, per il tramite della Bank of England, rivolte a a grandi aziende, che già si trovavano in buone condizioni finanziarie prima dell'inizio della crisi; credito fino a 5 milioni per piccole e medie imprese (45 milioni di sterline di fatturato) erogato dalle banche; plafond da 1,2 miliardi per l'ecosistema delle start-up.
Fase 2
Da questo punto di vista c'è una generale fiducia del Made in Italy verso la Gran Bretagna; perché da sempre è un ambiente pro-impresa: il mercato del lavoro ha la giusta flessibilità per gestire le emergenze (che significa tagliare con facilità, ma altrettanto facilmente assumere quando l'economia riparte). Sulla Fase 2 c’è il vento contrario di una pesantissima recessione: il paese stima una crollo apocalittico del Pil del 35% nel primo semestre e del 13% a fine anno. Tutti auspicano che la recessione sia a V: ossia un crollo verticale, che già sta accadendo ma un’altrettanto veloce ripresa. Più preoccupante, per l’impatto sulI’interscambio con l'Italia, sarebbe una recessione a W o, peggio, la temuta L, crollo verticale e poi una lunga stagnazione. Molto delle prospettive macro-economiche della Gran Bretagna dipendono anche da come si muoverà la Sterlina, ora ancor più slegata all'Euro. Al momento è difficile fare previsioni, è l’ammissione di Maurizio Ghirga, il luogotenente dalla Banca d'Italia a Londra. La sterlina era ritenuta fortemente sottovalutata a fine 2019, ma ora è difficile capirne la direzione. Il valore attuale è di equilibrio di breve termine, difficilmente si può pensare ad un forte apprezzamento della sterlina. Anzi, più verosimile un deprezzamento. E questo non aiuterebbe export.
Innovazione
La carta che l’Italia deve giocare per non perdere il treno della “ripartenza”, e per neutralizzare l'impatto del cambio, è l’innovazione: sebbene moda, design e cibo siano i tre alfieri, il cuore del sistema produttivo e dell'export dell'Italia in Uk, sta nella manifattura: il capo economista dell'Ambasciata, Massimo Carnelos, ha ricordato come i settori delle macchine utensili, automazione e automotive siano già una componente importante del nostro export, ma c'è margine di crescita vista la strategia industriale britannica: per ripartire, e anche in vista di un reshoring di produzioni per la Brexit, le imprese manifatturiere dovranno investire molto in macchinari. Anche perché il parco strumentazione medio ha un tasso di tecnologia piuttosto basso. Per L'Italia, che assieme alla Germania, è il leader mondiale delle macchine utensile si aprono opportunità.
Esportare nel Regno Unito richiederà innovazione e capacità competitiva. Su tutto, però, incombe la nube tossica di Brexit: in soli sei mesi il paese dovrà chiudere un accordo con la Ue, ma le ultime notizie che arrivano da Bruxelles non sono incoraggianti. Lo scenario di un No Deal, con un'uscita al buio per UK, si fa ogni giorno più concreto. E quello più del Covid rischia di compromettere il fiume di merci Made in Italy che prendono la strada di Londra.
loading...