Giù dal lettino

La fiducia nella cura e la cura della fiducia

Tra genitori e figli, professori e studenti, terapeuti e pazienti, ma anche tra governanti e popolazione, c'è una crisi di epistemic trust

di Vittorio Lingiardi e Guido Giovanardi

3' di lettura

Joseph Henrich insegna ad Harvard ed è un antropologo “evoluzionista culturale”. Ha pubblicato per Penguin Books un saggio interessante e ambizioso: The WEIRDest People in the World: How the West Became Psychologically Peculiar and Particularly Prosperous. Weird, in inglese significa “strambo”, “peculiare”, ma qui vale come acronimo per “Western, Educated, Industrialised, Rich and Democratic” (Occidentali, Colti, Industrializzati, Ricchi e Democratici).

Weird

Insomma: noi. Ma perché weird? Perché Henrich, chiamando all'appello ricerche psicologiche, antropologiche ed economiche degli ultimi decenni, ci dice che ciò che riteniamo standard e universale da un punto di vista psicologico è in realtà peculiare di una parte molto limitata della popolazione mondiale (considerando Europa, Nord America, Oceania, Giappone, Corea, e qualche altro segmento sparso, non più del 12%).

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88% della popolazione mondiale compare solo nel 4% delle ricerche

Henrich parte da un semplice dato: il 96% delle ricerche psicologiche pubblicate comprende campioni ricavati da popolazioni che appartengono a questa minoranza. Questo significa che il restante 88% della popolazione mondiale compare solo nel 4% delle ricerche! Pare dunque che molte delle nostre certezze sul funzionamento psicologico vadano ridimensionate e rilette con la lente dell'evoluzionismo culturale.

Sono molte le “peculiarità” che Henrich prende in analisi, offrendoci strumenti stimolanti per comprendere il nostro livello di individualismo (il cosiddetto I-mode) e quanto, a differenza di popolazioni organizzate in strutture sociali più collettivistiche, sia per noi difficile acquisire fiducia negli altri.

Per esempio, una ricerca citata nel libro (e ripresa da Peter Fonagy in un bel seminario organizzato dal collega Osmano Oasi all'Università Cattolica di Milano) mostra come di fronte a una prova sperimentale in cui bisogna completare la frase “io sono…” in dieci modi diversi, noi weird tendiamo a usare attributi personali, spesso legati al nostro lavoro o alle nostre aspirazioni individuali (“uno scienziato”, “un curioso”, “una persona aperta di mente”), mentre il resto del mondo usa con molta più frequenza ruoli familiari o sociali (“il padre di Efemelu”, “la sorella di Maya”, “un membro del popolo Ndebele”).

Le nostre società sono ormai per lo più costituite attorno all'I-mode a spese del we-mode, cioè di un senso collettivo del “noi” e di una fiducia sociale nella comunità di appartenenza. Può essere utile menzionare a questo punto il concetto di epistemic trust, la “fiducia epistemica” (un costrutto centrale negli ultimi sviluppi delle teorie evolutive elaborate dal gruppo di Peter Fonagy dell'University College di Londra - vedi https://www.researchgate.net).

Che, in poche parole, può essere definita come la capacità di considerare l'altro – tra cui caregiver, terapeuti, amici, ecc – come fonte autorevole e affidabile di informazioni. Secondo Fonagy alcuni quadri psicopatologici sono riconducibili, tra le altre cose, anche a un deficit della fiducia epistemica, deficit che per esempio porta sempre a presupporre che le intenzioni dell'altro siano diverse (malevole o pericolose) da quelle dichiarate. A livello individuale ciò comporta lo sviluppo di problemi relazionali, identitari, narcisistici, depressivi; a livello collettivo problemi di “sfiducia epistemica” si riverberano (e lo si vede chiaramente in questo periodo pandemico) in forme di negazionismo, populismo, auto-centrature narcisistiche, chiusure paranoidi nella propria bolla sociale, fino a fenomeni “psicotici” di massa, come diventare seguaci di QAnon o oltranzisti no-vax.

Un breve approfondimento clinico. Lo sviluppo della fiducia epistemica è legato alle dinamiche di attaccamento e alla capacità di mentalizzazione: l'epistemic trust si forma infatti negli scambi precoci tra bambino/a e caregiver, nelle interazioni faccia a faccia, nella sicurezza trasmessa da uno sguardo che accoglie, riconosce e riflette le emozioni dell'altro. È un aspetto fondamentale di molte relazioni: un buon insegnante (che riesce a porsi come fonte affidabile di informazioni) sa mettersi nei panni dei suoi studenti, comprendere e sviluppare le potenzialità di ognuno, consapevole delle sfide e delle frustrazioni che gli studenti devono affrontare. In terapia, per la costruzione di un'alleanza tra terapeuta e paziente è indispensabile l'“aggancio epistemico”, ovvero il terapeuta deve sforzarsi di riconoscere le narrative meno dominanti del paziente (gli aspetti più in ombra) e deve avvicinarli con delicatezza e condividerli, in modo che il paziente senta riconosciuti e accettati alcuni aspetti problematici spesso alla base di sofferenza e vergogna. Tra genitori e figli, professori e studenti, terapeuti e pazienti, ma anche tra governanti e popolazione, c'è una crisi di epistemic trust. Conoscere questo concetto e riconoscere dove è presente o assente (in noi e tra noi) è già un passo verso la sua ricostruzione.


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