La filiera agrifood vale 125 miliardi ma nei campi redditi in calo dell’8%
di Ilaria Vesentini
3' di lettura
Ridurre il divario dei prezzi dai campi alla tavola; accorciare la distanza tra agricoltori e consumatori ridimensionando la Gdo; saldare il legame tra settore primario e territorio in ottica di sostenibilità e redditività; riconoscere il valore sociale, ambientale ed economico dell’imprenditore agricolo; tutelare meglio l’origine italiana della materia prima in etichetta; introdurre strumenti efficaci di aggregazione di filiera tra agricoltura, artigianato, industria, commercio, logistica ed enti locali. Sono le proposte che Cia-Agricoltori italiani lancia dal palco dell’Unipol Auditorium a Bologna in occasione della VIII Conferenza economica, partendo dal fatto che esiste una forbice insostenibile: mentre il valore aggiunto della filiera agroalimentare italiana è salito a 125 miliardi di euro (9% del Pil) e l’export al record di 38,4 miliardi (+73% in dieci anni), i redditi nei campi scendono dell’8% l’anno, contro una media Ue di -2%.
L’effetto clessidra
«Numeri che derivano dall’effetto “clessidra” della filiera agrifood - spiega Denis Pantini, direttore area Agroalimentare di Nomisma - un fenomeno non solo italiano. Alle due basi della clessidra abbiamo 750mila piccole imprese agricole, da un lato, e 60 milioni di consumatori, dall’altro. Al centro la strettoia di 45mila esercizi della distribuzione moderna che veicolano il 74% delle vendite alimentari. Sono loro a governare i prezzi». La risposta è dunque nell’aggregazione del settore primario, troppo frammentato, ma anche in una redistribuzione del valore lungo la filiera che dalla terra arriva alla tavola.
Qualità fa rima con competitività e sostenibilità (economica)
«Il nostro Paese ha scelto la qualità come elemento per concorrere sui mercati, immediatamente dopo il tema è far sì che questa qualità, che costa, venga retribuita adeguatamente - rimarca il viceministro delle Politiche agricole, Andrea Olivero - e questo significa lavorare in una logica di aggregazioni. Se in una sola provincia, come quella di Ragusa, ci sono 17 organizzazioni di produttori nell’ortofrutta è impossibile costruire una filiera coesa, unica via per arrivare a riconoscere una giusta remunerazione agli agricoltori». In questa direzione si muovono le politiche della Regione Lombardia, la prima in Italia a imporre un impatto a cascata su dieci operatori della filiera nell’erogare finanziamenti all’innovazione agricola. Analoga la logica della Regione Emilia-Romagna, che ha nell’agrifood di qualità (Dop, Igp, bio) la seconda filiera per importanza economica dopo la meccanica e punta sulle associazioni di organizzazioni di produttori per superare la polverizzazione causata dalla maglia ponderale bassissima.
Agricoltura driver di valore se multifunzionale
«L’agricoltura italiana vale il 30% del valore aggiunto della filiera agrifood, seguita da ristorazione e industria alimentare - continua Pantini - e sconta la stessa frammentazione di cui soffrono industria del food&beverage e distribuzione, con redditi per impresa che sono un quarto della Germania. Ma oltre a criticità come le crescenti barriere tariffarie e non tariffarie, e la volatilità dei prezzi legata all’oligopolio di pochi grandi Paesi produttori, vedo grandi opportunità nello sviluppo di attività secondarie legate all’agricoltura (la diversificazione nel giro di quattro anni ha aumentato del 50% il valore prodotto), nell’e-commerce e nel digitale, strategie che automaticamente livellano i divari lungo la filiera».
Nei campi il valore di un’Europa comune
«Va riconosciuto il ruolo socio-economico dell’agricoltore con una corrispondenza in termini di prezzi pagati all’origine e va valorizzata la materia prima italiana in etichetta», chiosa il vicepresidente vicario della Cia-Agricoltori italiani, Cinzia Pagni, «perché ogni euro in più pagato agli agricoltori crea un effetto moltiplicatore lungo tutta la catena del valore, con conseguenze positive per la crescita di tutto il sistema economico del Paese». E dell’Europa. Perché il settore primario (che con i fondi Pac assorbe il 39% del bilancio Ue) svolge una involontaria funzione di collante delle politiche comunitarie, che nella prossima Pac 2020 segneranno il futuro non solo di 14 milioni di aziende e 30 milioni di addetti (questi i numeri dell’agricoltura europea), ma del 45% della superficie del Vecchio continente in mano agli agricoltori. Sostenere il loro business significa salvaguardare il patrimonio paesaggistico e la sicurezza idrogeologica dell’Europa del domani.
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