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I giovani sono tornati di moda nella discussione pubblica, per almeno due ordini di questioni. La prima, di cui si parla molto (tardivamente) è quella demografica: in Italia sono sempre di meno e una porzione va all’estero. Sono diventati una “risorsa scarsa”. La seconda attiene ad alcuni stereotipi incapaci di cogliere le dinamiche che li caratterizzano. Basti ricordare le famose definizioni di “bamboccioni” e “choosey”, o ancora più recentemente l’idea che abbiano poca voglia di lavorare e fare sacrifici, diversamente (forse?) dai loro padri e madri. Soffermiamoci sugli stereotipi. Le generazioni giovani, innanzitutto, sono un caleidoscopio di condizioni, non sono rappresentabili come un soggetto sociale unitario, ma si esprimono con una pluralità di identità. In secondo luogo, riusciamo a comprendere i loro orientamenti se li collochiamo nella contemporaneità che vivono, radicalmente diversa da quella delle generazioni precedenti. Nel mondo digitale in cui siamo immersi tutto è un flusso continuo e inarrestabile. La loro socializzazione ed educazione parte da qui. Ad esempio, la dimensione del tempo è schiacciata sul presente: il futuro è una dimensione lontana, incerta. Immaginare progettualità di lungo periodo è un esercizio praticamente impossibile. Ancora, quando si comunica loro che la prospettiva è di cambiare spesso lavoro nella propria carriera, pretendere che si immedesimino in un unico posto di lavoro diventa un ossimoro. E non ci si può lamentare se poi si mettono alla ricerca di altre occupazioni che rispondano maggiormente alle proprie aspettative. Anche perché esprimono un’idea di lavoro assimilabile a un percorso di carriera, fatto di opportunità di crescita professionale, meno legato a un posto fisico (ricerca Community Research&Analysis per Federmeccanica). È avvenuto uno slittamento dal posto di lavoro, dall’occupazione, al soggetto lavoratore e alla sua occupabilità. Nello stesso tempo, però, ambiscono a essere coinvolti negli ambienti di lavoro, a contribuire agli obiettivi dell’impresa in cui sono inseriti. Una sorta di “identificazione in movimento”. Così pure i criteri con cui scelgono un lavoro si fondano su fattori strumentali (benefit e incentivi economici, poter lavorare da casa) combinati ad altri di natura qualitativa (work-life balance, l’attenzione delle imprese per il sociale). In questo caso, siamo in presenza di una “strumentalità espressiva”. Insomma, un mix di culture del lavoro che si impastano in modo diversificato, quasi tailor made sui singoli soggetti.
Da ciò ne consegue che per aiutare effettivamente le giovani generazioni sul lavoro andrebbero sviluppate iniziative che fluidifichino i loro percorsi sul mercato, più che nella protezione dei posti. Rinforzare e implementare adeguatamente l’alternanza scuola-lavoro, diffondere l’apprendimento nell’esperienza della forma duale oltre gli enti di formazione professionale, sostenere la diffusione degli ITS e la costruzione di “filiere formative”, sviluppare un sistema nazionale di orientamento scolastico e professionale. Queste potrebbero essere le politiche attive della formazione a sostegno della occupabilità delle giovani generazioni.
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