La filiera del jeans, laboratorio ideale di circolarità e trasparenza
Per ridurre l’impatto ambientale serve l’impegno di tutti, dalla progettazione alle tinture, dai filati alla distribuzione, passando per i consumatori, che devono essere più responsabili
di Chiara Beghelli
3' di lettura
Colori naturali estratti dai minerali, pigmenti di origine botanica, tessuti riciclati e compostabili: la sostenibilità è stata di gran lunga la tendenza più rilevante emersa nell’ultima edizione di Denim Première Vision, a Berlino lo scorso maggio. Non è una novità che uno dei segmenti più importanti dell’industria globale della moda (secondo Allied Market Research arriverà a valere 88 miliardi di dollari entro il 2030, con una cagr del 4,2%) si stia impegnando per ridurre il suo impatto sul pianeta, ma è rilevante il proliferare di strumenti, tecnologie e iniziative che consentono di accelerare il percorso.
Uno dei progetti più interessanti in questo senso è The Jeans Redesign, lanciato nel 2019 dalla Ellen Macarthur Foundation per mettere a punto una road map per produrre abbigliamento in denim del tutto sostenibile e che oggi conta circa 100 membri rappresentanti di tutta la filiera: «Produrre jeans oggi richiede grandi quantità di risorse, pesticidi, acqua, energia, e il modo in cui sono disegnati e prodotti ne rende complicato il riutilizzo e il riciclo – spiega Natasha David, project Manager della Fashion Initiative della Ellen MacArthurFoundation –. Ecco perché per attivare il nostro progetto di economia circolare Make Fashion Circular abbiamo voluto partire proprio da questo prodotto. Nel maggio 2021 abbiamo presentato il primo jeans totalmente circolare, realizzato dall’olandese Mud Jeans, ma persistono ancora barriere nel rendere scalabili le soluzioni nell’industria. Noi vogliamo raccogliere le innovazioni e metterle a disposizione anche dei legislatori».
Fra le soluzioni adottate dai partecipanti al progetto molte sono novità emerse negli ultimi anni: la sostituzione dei rivetti di metallo con cuciture più resistenti; l’uso di pigmenti privi di componenti dannose per la salute e l’ambiente; tessuti riciclati (Inditex ha siglato un accordo da 100 milioni di euro per assicurarsi il 30% annuale della produzione di Infinna, tessuto da fibre cellulosiche riciclate prodotto dalla finlandese Infinited Fibers); la produzione di capi upcycled (come fa in modo esemplare la milanese Blue of a Kind, che produce capi in denim esclusivamente dal recupero di abbigliamento e tessuti); l’uso di fibre naturali alternative al cotone come la canapa e il bambù, che richiedono pochissima acqua e nessun pesticida; tecnologie laser usate anche per le fasi di tintura (come quella messa a punto dall’italiana PureDenim e dall’israeliana Sonovia); componenti riciclati e riciclabili (il maggiore produttore di zip al mondo, il giapponese Ykk, ne sta producendo in Econyl, la fibra di nylon riciclato dell’italiana Aquafil).
Innovazioni frutto di ricerca scientifica e creatività, «un binomio nel quale noi italiani siamo molto bravi, sin dal Rinascimento – spiega Alberto Candiani, presidente di Candiani denim, il maggiore produttore di tessuto denim in Italia –. D’altra parte Leonardo da Vinci ha inventato la cimosa (elemento tessile che caratterizza i jeans di qualità, ndr) e la tela denim è nata a Genova».
Dalla fabbrica di Candiani, fondata nel 1938 a Robecchetto con Induno, nel cuore del Parco del Ticino lombardo, escono oggi 20 milioni di metri ogni anno, in modo sempre più sostenibile: «Trovarci qui ci ha obbligato, e per fortuna, a essere sempre sostenibili», spiega Candiani, quarta generazione della famiglia e appassionato cercatore di soluzioni sempre più sostenibili: nel 2019 ha lanciato Coreva, il primo denim stretch compostabile mai prodotto nella storia della tessitura mondiale. La fibra elastica è infatti di gomma naturale, non di filato sintetico come quella tradizionale: a fine vita, dunque, il capo in denim Coreva si può letteralmente gettare sui campi (magari di cotone), anche perché è un biofertilizzante.
Un esempio di economia circolare perfettamente realizzata e di agricoltura rigenerativa, che si prefigge di ricostruire la vitalità del terreno sfruttato per la coltivazione ed è sempre più diffusa proprio fra i coltivatori di cotone: «Il 50% dei nostri prodotti sarà fatto di cotone da agricoltura rigenerativa entro la fine del 2023. L’altra metà in cotone organico, anche se onestamente stiamo cercando di ridurne l’uso perché è molto costoso, raro e spesso non realmente organico». Un successo, quello di Coreva, che entro la fine del prossimo anno diventerà un marchio, Coreva Design, mentre a ottobre sarà pronta la prima collezione di tessuti realizzati sostituendo l’alcol polivinilico, una sorta di plastica liquida, con il Kitotex, una sostanza di originale naturale ottenuta dalla chitina presente nello scheletro esterno dei crostacei e brevettata dall’italiana Canepa.
«Il monte della filiera è pronto, o almeno si sta impegnando per esserlo, ma è a valle che i brand devono agire, coinvolgendo i consumatori – conclude l’imprenditore –. L’acronimo B2C non deve più significare business to consumer, ma business to citizen. Il cliente deve essere considerato un cittadino, nella sua valenza partecipativa. È un cambio di paradigma necessario e dirimente per il futuro».
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