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La frenata cinese fa tremare i mercati delle materie prime

Pechino assorbe più di metà dell’offerta mondiale di metalli ed è prima per importazioni di petrolio e di molti prodotti agricoli, con un peso sui mercati che oggi è decisamente superiore rispetto all’epoca dell’epidemia da Sars

di Sissi Bellomo

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4' di lettura

Turismo, trasporti e beni di lusso sono in prima fila tra i settori a rischio coronavirus. Ma nessun mercato dipende dalla Cina quanto quello delle materie prime, per cui il gigante asiatico rappresenta in assoluto la maggiore fonte di domanda, con una percentuale dei consumi mondiali che per molti prodotti – soprattutto metalli, ma non solo – supera il 50 per cento.

Per il petrolio l’incidenza è minore (circa il 10%), ma Pechino oggi ha superato di gran lunga gli Stati Uniti nella classifica degli importatori di greggio, diventando prima al mondo, con una media di 10,12 milioni di barili al giorno l’anno scorso.

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Se il gigante asiatico si ferma, anche per breve tempo, per chi produce commodities sono dolori. Lo sa bene l’Opec, che in risposta all’epidemia starebbe già valutando se prolungare e magari accentuare il taglio della produzione di petrolio. E lo sanno bene gli investitori che in questi giorni hanno preso di mira con particolare accanimento i titoli minerari e il comparto dei metalli.

Al London Metal Exchange la paura per il coronavirus ha fatto scivolare il rame ai minimi da due mesi, sotto 5.800 dollari per tonnellata, mentre il nickel è sceso a livelli che non si vedevano dall’estate scorsa. Non stupisce, visto che Pechino consuma metà del rame mondiale (importando oltre il 70% dei concentrati) e addirittura il 60% del nickel, usato nell’industria siderurgica e sempre più spesso nella produzione di batterie: due settori industriali in cui la Cina primeggia.

Il Paese consuma anche più di metà dell’acciaio mondiale, ma è anche il maggior produttore, con quasi un miliardo di tonnellate l’anno, che in gran parte finiscono all’estero. Se il coronavirus metterà un freno alle attività manifatturiere e alle costruzioni – com’è probabile che accada – l’export di acciaio dalla Cina, ovunque sotto accusa per dumping, rischia di crescere ulteriormente.

Un possibile rallentamento degli impianti siderurgici nel frattempo sta facendo crollare i prezzi del minerale di ferro: raggiungono la Cina due terzi delle esportazioni globali della materia prima

L’umore negativo sui mercati – che solo ieri si sono presi una pausa, dopo pesanti ribassi – deriva in gran parte dal timore di una frenata dell’economia. Nel 2019 la Cina ha registrato il tasso di crescita più basso da trent’anni, appena il 6,1%, e c’è la concreta possibilità di un ulteriore rallentamento, che potrebbe avere serie ripercussioni su scala planetaria.

Ai tempi della Sars, nel 2002-2003, la Cina aveva un peso economico pari a circa un quarto rispetto a oggi: rappresentava il 4,2% del Pil mondiale, contro il 15,8% del 2018 . E non aveva ancora la stessa fame di materie prime.

Da allora  i suoi consumi di petrolio sono più che raddoppiati, mentre il fabbisogno di semi di soia è cresciuto di oltre 7 volte con lo sviluppo degli allevamenti e oggi supera 100 milioni di tonnellate l’anno. Quanto ai metalli, nel 2002 Pechino assorbiva solo il 10-20% dell’offerta globale di rame, alluminio e nickel.

L’epidemia di coronavirus è scoppiata nel periodo del Capodanno lunare, quando tipicamente i consumi di materie prime della Cina si riducono. Ma se non ci sarà un rapido ritorno alla normalità, le pressioni sui prezzi potrebbero farsi ancora più intense.

«Le fabbriche sarebbero state comunque chiuse durante i festeggiamenti», osserva Schroders, ma «anche con la ripresa della produzione è possibile che non saranno in grado di mantenere lo stesso livello di output». Per ora le autorità hanno prolungato di soli tre giorni le ferie, ma alcune società per precauzione resteranno chiuse più a lungo. Altre non potranno essere raggiunte dai lavoratori, viste le limitazioni agli spostamenti e il numero crescente di città in quarantena.

Per i metalli non ferrosi, come il rame, «il mercato ha ragione a temere la portata dei costi economici», afferma Citigroup. «La domanda cinese si avvia davvero ad essere estremamente debole per le prossime 4-6 settimane». I consumi di metalli – che sembravano in ripresa, grazie all’espansione del credito e alla tregua sui dazi con gli Usa – rischiano di non risalire per 3-4 mesi, avverte la banca.

Anche sul petrolio l’impatto potrebbe essere pesante. Sulla base dell’esperienza della Sars, Goldman Sachs stima un taglio dei consumi di 260mila barili al giorno. S&P Global Platts Analytics avverte che potrebbe andare ben peggio: se il coronavirus è davvero come la Sars si perderebbero 700-800mila bg di domanda, più di metà della crescita attesa nel 2020.

Il danno, spiegano gli analisti della società, «sarebbe molto più grande che nel 2003 perché oggi l’Asia pesa molto di più sulla domanda»: i consumi di jet fuel, il carburante per gli aerei, da allora sono aumentati del 47% (a 7,11 milioni di barili al giorno) e «la crescita è stata fortemente concentrata in Cina, nel Sudest asiatico e nell’Asia meridionale».

Per approfondire:
Il coronavirus manda a picco petrolio e rame, mentre l'oro vola
Petrolio, il virus cinese fa più paura della crisi in Libia

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