La gara all’egemonia tecnologica globale minaccia la stabilità
L’allarme del Governatore di Bankitalia Visco: «la sicurezza nazionale può essere tutelata evitando politiche protezionistiche generalizzate che rafforzerebbero la tendenza all’aumento delle barriere commerciali e agli investimenti diretti esteri emersa nell’ultimo quinquennio»
di Giovanni Tria
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Il governatore Ignazio Visco ha aperto le sue Considerazioni finali alla Relazione annuale della Banca d’Italia mettendo in luce i rischi che provengono dallo scenario internazionale. Le preoccupazioni riguardano l’attacco alla globalizzazione, il fatto che il perseguimento di una maggiore diversificazione delle catene di fornitura non deve «mettere in discussione le fondamenta di un ordine internazionale basato su regole condivise e aperto ai movimenti di beni, servizi, capitali, persone e idee», perché «la sicurezza nazionale può essere tutelata evitando politiche protezionistiche generalizzate che rafforzerebbero la tendenza all’aumento delle barriere commerciali e agli investimenti diretti esteri emersa nell’ultimo quinquennio». Infine, l’appello a preservare il funzionamento delle istituzioni multilaterali e a ridare forza alla cooperazione internazionale.
Un richiamo, dunque, alle conseguenze negative della de-globalizzazione e della frammentazione dei mercati continuamente sottolineate dall’Fmi e, di recente, anche dalla presidente della Bce Christine Lagarde: meno commercio internazionale, meno produzione, più inflazione, più instabilità finanziaria. L’intensificarsi di questi caveat non dipende solo dal fatto che queste conseguenze negative si sono già in parte materializzate per l’assenza di coordinamento nell’uscita dalla crisi pandemica. Si tratta anche di rispondere all’influenza di una tesi di recente ribadita con chiarezza dal Consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, Jake Sullivan in un recente discorso tenuto alla Brookings Institution. Si tratta della tesi secondo cui la governance economica globale dovrebbe essere sottratta all’influenza preponderante degli esperti di economia e finanza per essere affidata maggiormente agli esperti di sicurezza nazionale e di politica estera. Come ha fatto notare l’economista francese Jean Pisani-Ferry, gli esperti di politica estera tendono a vedere la politica globale come un gioco a somma zero nel quale se un Paese guadagna un altro perde. Gli economisti invece guardano all’integrazione economica internazionale e alla cooperazione multilaterale come un gioco che porta a un mutuo vantaggio.
È abbastanza evidente che la visione ottimistica degli economisti non debba sfociare nell’ingenuità geopolitica, anche se vale la pena di ricordare che abbiamo avuto, per merito della globalizzazione, molti decenni di crescita senza inflazione in Europa e Stati Uniti e oltre 800 milioni di persone uscite dalla povertà assoluta in Asia e in altri Paesi emergenti e in via di sviluppo. D’altra parte, il mondo guidato dalla visione del gioco a somma zero attribuita agli esperti di sicurezza nazionale appare molto più pericoloso. Questa può apparire come una rappresentazione semplificata del dibattito in corso. Di fronte all’evidenza dei disastri che sarebbero conseguiti al perseguimento del decoupling – prima versione dell’obiettivo di deglobalizzazione per motivi geopolitici – ora si parla di derisking, secondo la formulazione utilizzata in Europa, rilanciata da Sullivan e adottata all’ultimo G7 di Hiroshima.
Il derisking appare più ragionevole perché si confonde con la ovvia e naturale ricerca di una diversificazione delle fonti di approvvigionamento di materie prime e beni intermedi in modo da rendere più sicure le catene produttive. Si tratta dell’applicazione di un principio economico che le imprese, in base alle analisi standard di rischio, applicano come prassi commerciale e di sviluppo strategico. È dove entrano gli Stati con le loro politiche industriali che questi princìpi vengono ignorati. Ma dietro la cortina del derisking inteso come prassi di sicurezza economico-commerciale si cela il vero tema: quello dello scontro per l’egemonia tecnologica globale. Scontro che passa attraverso il porre restrizioni allo scambio di beni e soprattutto di tecnologie – ed evidentemente dietro le tecnologie c’è la ricerca – che possono avere applicazioni militari oltre che civili.
Qui sorgono almeno due temi cruciali.
1 Qual è il criterio per definire il dual use della ricerca e delle tecnologie e, soprattutto, chi lo decide e come? Quasi tutte possono avere un doppio uso. L’estensione di questo principio affermato in modo unilaterale dai singoli Paesi, e non secondo regole condivise, significa porre un ostacolo formidabile al flusso internazionale di investimenti. Ogni impresa, prima di investire in un Paese in produzioni con tecnologie avanzate che sono in continua evoluzione, non saprebbe su quali nuove tecnologie e materie prime ci potrà essere un futuro embargo. Il solo effetto di annuncio dell’applicazione di queste politiche è disastroso sul piano economico.
2 Tutte le grandi sfide di fronte all’umanità, a partire dal cambiamento climatico e dal contrasto alle pandemie, dipendono dal progresso scientifico e tecnologico. Porre ostacoli allo scambio scientifico e tecnologico significa rallentare questo progresso. L’obiettivo della supremazia tecnologica è quindi da respingere come intrinsecamente contraddittorio rispetto alla possibilità di una governance globale. Esso è, appunto, l’applicazione dell’idea che la politica internazionale sia un gioco a somma zero. Con l’avvertenza che esistono i giochi a somma negativa, che sono quelli per i quali si esercitano i dottor Stranamore.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”.
Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
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