La Germania, il caso Italia e l’incertezza europea
di Sergio Fabbrini
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I fatti sono noti. Molto di meno gli insegnamenti che si possono derivare da essi, sia per l’Italia che per l’Europa. I fatti sono lo stallo governativo e l’indebolimento della leadership di Angela Merkel in Germania. Gli insegnamenti riguardano il funzionamento delle democrazie proporzionali, il ruolo dei leader al loro interno, le loro esternalità sulla politica europea. Cominciamo dalla Germania e dal suo sistema politico. Le elezioni del 24 settembre scorso hanno registrato il declino elettorale dei maggiori partiti (cristiano-democratici, cristiano-sociali e social-democratici) e l’ascesa elettorale dei partiti di estrema destra (Alternative für Deutschland o AfD) e di estrema sinistra (Die Linke).
Nonostante questi ultimi abbiano conseguito (insieme) solamente 1/5 del voto popolare, la loro influenza si sta rivelando superiore alla loro rappresentatività. Essi non hanno la forza necessaria per fare un governo, tuttavia hanno la forza sufficiente per irrigidire la predisposizione negoziale degli altri partiti che possono fare un governo. Ciò è tipico delle democrazie proporzionaliste in condizioni di frammentazione partitica. La stabilità del sistema tedesco del passato è risieduta nella coesione e stabilità dei suoi partiti politici, prima ancora che in quelle delle sue istituzioni elettorali e di governo.
Come spiegò molti anni fa Giovanni Sartori, il sistema elettorale proporzionale (seppure manipolato da accorgimenti finalizzati a ridurne il suo tasso di proporzionalità) produce stabilità governativa solamente se vi è un sistema di partito (basato su due grandi partiti di centro-destra e centro-sinistra) sufficientemente stabile per neutralizzare gli effetti disgregativi del sistema elettorale. Quando, come è avvenuto, i due maggiori partiti non sono stati più in grado di attrarre l’elettorato delle rispettive aree politiche, creando così le condizioni per l’affermazione di nuovi partiti, allora ne è risultato lo stallo governativo.
Eppure, in Italia, i sostenitori del sistema elettorale proporzionale hanno continuato a sostenere che la stabilità del governo dipende principalmente dalla politica e non già dalle istituzioni. I nostri proporzionalisti hanno condotto una battaglia «per la vita o per la morte» contro l’Italicum, e la riforma costituzionale del 4 dicembre scorso, proprio dietro il vessillo del modello tedesco. Hanno vinto, riportando l’Italia al sistema proporzionale, anche grazie alle compiacenze della nostra cultura giuridica. Quest’ultima ha avuto un ruolo di grande e meritoria importanza nella ricostruzione del nostro stato di diritto post-bellico, impietosamente umiliato dalla precedente esperienza del regime fascista. Proprio in discontinuità con l’esperienza fascista, quella cultura (seppure con eccezioni di grande rilievo, come nel caso di Leopoldo Elia) ha finito però per ideologizzare il ruolo della rappresentanza e della partecipazione, intese come proprietà esclusive di un regime democratico. Al punto che la governabilità è divenuta una vera e propria minaccia alla democrazia, non già come una sua proprietà altrettanto costitutiva. Non solamente per Gustavo Zagrebelski, ma anche per la maggioranza della nostra Corte costituzionale, la governabilità è poco più che l’accidentale sotto-prodotto del sistema rappresentativo. Che quel “sotto-prodotto” risulti inutilizzabile, come avverrà in Italia con le elezioni della prossima primavera, sembra non preoccupare gli esponenti di quella cultura. Tuttavia, se la Germania, che pure ha tutti i fondamentali in ordine, si preoccupa del proprio stallo governativo, cosa dovremmo fare noi che, per di più, non abbiamo i fondamentali in ordine?
Vediamo ora la leadership di Angela Merkel. Nessuno si sarebbe aspettato il suo indebolimento dopo 12 anni di cancellierato che l’hanno resa un leader di statura internazionale. È indubbio che Angela Merkel abbia dimostrato di avere doti politiche. È un leader che sa tenere i piedi freddi, che sa ragionare in condizioni difficili, che sa misurare le conseguenze delle sue parole. Tuttavia, è altrettanto indubbio che abbia dimostrato di avere anche non pochi limiti politici. Merkel ha interpretato la sua leadership come amministrazione dello statu quo. Certamente, in alcuni momenti critici, ha assunto posizioni contro-corrente, come nell’estate del 2015 quando ha aperto le porte del suo Paese a centinaia di migliaia di rifugiati politici provenienti dalla Siria e dal grande Medio-Oriente.
Tuttavia, in 12 anni, non è mai emersa una sua visione sul futuro della Germania e dell’Europa. Merkel ha finito per interpretare la sua egemonia politica come il risultato di una rendita di posizione, come l’inevitabile conseguenza della sua centralità nelle relazioni transattive tra le varie componenti del suo governo e del suo partito. Tuttavia, e non solo nella politica democratica, l’egemonia non deriva da una posizione, bensì è l’esito di un’azione. Proviene dalla capacità di spostare in avanti i termini della lotta politica, di definire prospettive più avanzate su cui gli altri attori dovranno quindi riposizionarsi. Merkel non ha fatto nulla di tutto questo. Ha spento i fuochi che potevano bruciare l’Europa, ma non ha acceso quelli che potevano riscaldarla. Anche in questo caso, un insegnamento importante emerge, particolarmente per l’Italia. Come argomentò Ferdinand Hermens a metà del secolo scorso, le democrazie periscono per la debolezza delle loro leadership, non già per la loro forza. Se così è, possiamo accontentarci di avere buoni manutentori alla guida dei nostri governi?
Arriviamo così alle conseguenze dello stallo tedesco per l’Unione europea (Ue). Priva di un chiaro disegno istituzionale, quest’ultima si è venuta a strutturare sulla base di impulsi contingenti provenienti dai cicli elettorali nazionali. Anzi, nel corso delle crisi dell’ultimo decennio, la stessa autonomia funzionale delle istituzioni sovranazionali si è indebolita drammaticamente. Quelle istituzioni hanno finito per operare come il riflesso delle politiche nazionali, piuttosto che come l’espressione di un interesse distinto da queste ultime. La Ue vive ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Aveva il fiato sospeso per la paura che vincesse Marine Le Pen a Parigi nella primavera scorsa. È ora con il fiato sospeso in attesa che si formi un governo a Berlino, poi avrà il fiato sospeso per paura che non si formi un governo a Roma, poi rimarrà con il fiato sospeso fino a quando non si troverà una soluzione alla crisi catalana, è da tempo che ha il fiato sospeso per ciò che sta avvenendo a Budapest o a Varsavia, ha il fiato sospeso per la situazione che si è creata a Vienna. Nel frattempo, il mondo non si ferma, il nazionalismo di Trump continua a farsi sentire, l’aggressività di Putin non diminuisce, né si riducono i flussi migratori che giungono nel nostro continente, la crescita economica è tutt’altro che garantita, le diseguaglianze sociali e territoriali diventano sempre più acute in assenza di politiche efficaci per contrastarle. Se i leader politici non prenderanno atto che la commistione tra le politiche nazionali e la politica europea costituisce una minaccia mortale per la Ue, quest’ultima è destinata a implodere o a scivolare nella irrilevanza. Con la conseguenza di legittimare il populismo nazionalista forte ormai in tutti i Paesi europei. Occorre che un gruppo di leader, a partire dall’Eurozona, liberi la Ue da questa trappola mortale, creando le condizioni politiche di un’unione federale dotata di un’autonomia decisionale dai suoi stati membri. Non si può andare avanti con risposte del momento alle necessità del momento. Come scrisse Alexander Hamilton più di due secoli fa, «la necessità, specialmente in politica, dà spesso vita a false speranze, a falsi ragionamenti e a misure corrispondentemente erronee». Ecco perché lo stallo tedesco ha molte cose da dire sia all’Italia che all’Europa.
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